Gli agenti dei servizi
segreti americani arrivarono il giorno prima dell’inaugurazione per
accertarsi che il Presidente Franklin Delano Roosevelt potesse
entrare con la sedia a rotelle alla mostra Children of the Rich on
WPA Art Project. Voleva vederla a ogni costo e così arrivò la
mattina della domenica in assenza di pubblico. «Era gioioso pieno di
vita, di energia. Quell’uomo aveva un’energia straordinaria», ha
raccontato Holger Cahill, critico e curatore, direttore del Fap
(Federal Art Project). La mostra rendeva conto del lavoro dei
fotografi impiegati dallo Stato americano nel programma di sviluppo
del New Deal, che fece rinascere gli Stati Uniti. È il 1935,
l’America sta attraversando il Big Crash, il più grave tracollo
che l’abbia mai colpita. Il Presidente Roosevelt ha iniziato un
percorso di umanizzazione della crisi per condurre il popolo
americano fuori dalla fame. Con il New Deal, letteralmente
nuovo corso, il governo stanzia nuove leggi per impiegare milioni di
disoccupati nella costruzione di grandi infrastrutture e di boschi,
creando un sistema di occupazione che coinvolge tutte le categorie.
Roosevelt si rende conto che è psicologicamente più importante
creare lavoro che dare sussidi e capisce che la vittoria dell’America
è la vittoria di tutti gli americani e non di una classe. «Il paese
ha bisogno e, se non m’inganno sui suoi umori, chiede una
coraggiosa e tenace sperimentazione», dichiara. All’interno del
New Deal nasce un progetto di impiego per gli artisti americani, il
Fap, costola del Wpa (Work Progress Administration). Fu George
Biddle, amico d’infanzia del Presidente, pittore e muralista con
Diego Rivera in Messico, a suggerirgli l’idea di un programma a
sostegno della cultura, sia per la sopravvivenza degli artisti sia
per l’importanza politica di creare un’arte pubblica americana.
Il programma durò otto anni dal 1935 al 1943 e quando qualcuno mosse
obiezioni sull’impegno verso l’arte, Harry Hopkins, consigliere
del Presidente, mediatore tra Churchill e Stalin, pilastro del New
Deal, rispose candidamente: «Anche gli artisti devono mangiare
come ogni altra persona».
Si dice siano state
create 225.000 opere tra murales, poster, quadri, fotografie e siano
stati impiegati 5000 artisti. Non c’erano discriminazioni
stilistiche, gli artisti potevano partecipare ai concorsi e venivano
scelti in base al progetto, senza che le commissioni conoscessero i
loro nomi. Gli edifici pubblici come le poste, gli ospedali, le
biblioteche, erano i luoghi ai quali venivano destinati i murales con
scene storiche o legate alla ripresa dalla crisi, spesso frutto di
una pittura realista. Sembrava infatti urgente capire cosa stesse
succedendo e come oltrepassare il baratro mappando la realtà in ogni
sua parte. Il lavoro artistico diventava allora strumento cognitivo.
Si era stretta un’alleanza, basata sul diritto alla felicità, tra
mondo intellettuale, mondo politico e mondo economico. L’ufficio
postale era il luogo dove ogni cittadino americano avrebbe messo
piede e sarebbe entrato in contatto con l’opera, poiché l’arte
doveva essere nutrimento per tutti, orizzontale e democratica. A ogni
nuovo edificio federale, nel quale potevano esserci sino a 25
murales, veniva destinato l’1% dei costi al progetto artistico e
gli artisti venivano pagati una cifra che oscillava tra i 23 e i 35
dollari a settimana. Alcuni dei loro nomi, allora sconosciuti, erano
Willem De Kooning, Mark Rothko, Arshile Gorky, Philip Guston, Thomas
Hart Benton, Stuart Davis, Diego Rivera, Gabriel Orozco, Robert
Motherwell, Jackson Pollock, che incontrò sul lavoro la sua futura
moglie Lee Krasner. E non si era ancora profilata all’orizzonte
nessuna Peggy Guggenheim e nessun Leo Castelli. Gli artisti, al pari
di lavoratori comuni, poterono sopravvivere, vivere e soprattutto
credere in uno Stato che li stava proteggendo, che stava creando il
palcoscenico di un’arte autonoma che sino ad allora aveva vissuto
il complesso d’inferiorità nei confronti dell’Europa. Si stavano
mettendo le basi per la nascita della Pop Art, di un arte popular
come popolare era stato l’intervento rooseveltiano.
Senza il Federal Art
Project ci sarebbe mai stata la bandiera di Jasper Johns? E il suo
valore simbolico e culturale, oltre che di mercato, sarebbe stato lo
stesso? E infine, i governi statunitensi a venire avrebbero investito
nella diffusione della nuova arte americana da usare come fiore
all’occhiello per la politica internazionale?
John F. Kennedy nel 1963
possedeva Retroactive I, l’opera di Bob Rauschenberg, che lo
ritraeva con Neil Armstrong. Durante il New Deal venivano
commissionate anche opere da cavalletto, fotografie e poster che
illustravano le condizioni di povertà estrema della popolazione e
l’instabile condizione dell’artista. In questo modo si creò una
forma di propaganda di ciò che il Wpa stava producendo. «Can the
artist survive?», c’era scritto sui manifesti. Tutti stavano
lavorando a un unico obiettivo: uscire dallo stritolamento economico,
uscirne tutti compatti senza il tentativo da parte
dello Stato di
mantenere i privilegi di un nugolo di persone a scapito di molti.
Bisognava agire su ogni possibile terreno e temere solo, diceva
Roosevelt, la paura. Il WPA promuoveva il fotogiornalismo e le
campagne sociali, come quella della Farm Security Administration
(FSA), agenzia per il riassetto agricolo, nata dalla necessità di
documentare la situazione dei contadini e delle zone rurali per
interventi strutturali. Trenta fotografi, tra i quali Walker Evans,
Dorothea Lange, Walter Rosenbaum, Ben Shahn, hanno fermato, con i
loro 270.000 scatti, un panorama unitario di documentazione sociale,
contribuendo ciascuno a proprio modo e aiutandosi a vicenda. Quelle
fotografie, che sono poi apparse sulle copertine di Life e Fortune,
che sono entrate decenni dopo nelle gallerie e nei musei, che sono
state riutilizzate da artiste quali Sherrie Levine in un’altra
cornice concettuale, sono nate grazie a Roosevelt che ha
proficuamente coinvolto tutte le forze creative dell’America.
Ricordate le foto di quelle famiglie magre nelle loro baracche? I
loro volti, che in bianco e nero sembrano ancora più sporchi, ci
guardano come lontani parenti dalla distanza di poco meno di un
secolo. Dorothea Lange nel 1936 in California ritrasse The Migrant
Mother, alcune delle quattromila madri che lasciarono la loro
terra secca e infruttuosa per cercare radici, erbe e uccellini da dar
da mangiare ai figli. Una di queste, in una delle foto più famose,
dimostra sessant’anni ma ne ha trentadue.
Il Presidente Roosevelt e
il suo entourage, coscienti dell’immane sofferenza collettiva,
compiono azioni pratiche, veloci, concrete per uscire dalla crisi. E
gli artisti mettono l’anima. La loro non era solo una questione di
sopravvivenza, volevano essere attori di un cambiamento epocale.
Personalmente credo che questo spirito non possa mai tramontare,
l’artista colombiana Maria Teresa Hincapiè, parlando del suo
lavoro, l’anno prima di morire, mi disse: «La gente ha condiviso
il mio profondo desiderio di trasformare in amore tutto il dolore del
mondo. L’opera è universale, parla della natura umana, della
purezza, della sensibilità e delle tradizioni». Un giorno, dopo
mesi di eremitaggio, decise di scendere in città e di pulire, come
fosse casa propria, l’angolo di una delle strade più sporche e
pericolose di Bogotà. Hincapiè cercava la perfezione e il dominio
dei movimenti, lavorava sul minimale, sui gesti piccoli e
apparentemente insignificanti. È forse questa una via da
intraprendere per uscire dal giogo di politiche violente e
prevaricatrici? Per creare spazi di libertà e libertà dal
linguaggio economico? La crisi che è innanzitutto di pensiero
paralizza il cittadino che ha perso diritti, risorse e libertà,
diventando debitore di un debito mai contratto. Non ci soffermeremo,
in questa sede, sul disastro culturale che incombe nel nostro paese,
di cui peraltro rendono conto improvvisamente tutti i media. Non
parleremo neppure del linguaggio truce e repressivo nel quale affoga
la nostra quotidianità, tra spread, swap, default, bond, grey
market, debito, lacrime, sangue, sacrificio, né tantomeno
affronteremo il problema del monopolio, delle fondazioni e delle
istituzioni artistiche pubbliche e private, detenuto da un ristretto
gruppo di finanzieri.
Ci limitiamo a mostrare
una via già percorsa da uomini che avevano un profondo senso etico e
concludiamo con le parole dell’economista Christian Marazzi: «Negli
ultimi vent’anni si è affermato, nelle economie occidentali, quel
modello antropogenetico, all’interno del quale la cultura, quindi
l’arte, la formazione, la ricerca, la socialità e la sanità, sono
fondamentalmente i settori che tirano di più, che generano più
lavoro e più reddito. In questi settori la finalità della
produzione umana non è un oggetto ma è l’uomo stesso, il suo
benessere, il suo stato di felicità. Questo giustifica l’idea
secondo la quale occorre ripensare a un rafforzamento di questa
tendenza in termini di riconoscimento del contributo di questi
settori. Riconoscimento economico, finanziario e di investimento. Ma
è proprio ciò che non si fa, si tende a tagliare per poter aprire
spazi di privatizzazione con tutte le conseguenze. Da una parte c’è
una dimensione di resistenza e di rivendicazione all’interno di
questa tendenza e dall’altra sembra che si ponga la questione del
vuoto in cui ci troviamo nella produzione di forme di vita di
relazione e di spazi esistenziali che sappiano andare oltre la crisi
e ne prefigurino un’uscita». Marazzi rivendica infine il bisogno
di un’estetica del dopo crisi che abbia una valenza concreta e
pratica, recuperando la dimensione della forza-invenzione
dell’artista per trasformarla in forza di progettazione in vista
della fine della recessione.
“alfabeta 22”, aprile
2012 – Anno III, n.18
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