Un reportage ben
costruito e scritto che invoglia ad andare sul posto, per verificare.
(S.L.L.)
Hanoi. La grande piazza del Quartiere Francese con l'Highland Coffee |
Hanoi
Nel cuore di Hanoi c’è
un piccolo lago a forma di peperone. A metà lago c’è un’enorme
statua in pietra: no, non del padre della patria Ho Chi Minh; ma di
un imperatore dell’undicesimo secolo, Ly Thái To, che fu il
fondatore della città. E ai piedi dell’imperatore cosa c’è? C’è
il narcisismo del nuovo Vietnam: liceali che volteggiano ballando la
breakdance; ragazzine in Nike, Ray-Ban e zainetto North Face;
una rock band di studentelli molto amplificata che prova per il
concertino del sabato sera; adolescenti, e persino bambini, che
sfrecciano su e giù bilanciandosi come acrobati su nuovissimi
Hoverboard, la versione del Segway senza manubrio. Tutti senza
sorveglianza dei genitori e a rischio, appena si distraggono, di
farsi travolgere da uno degli innumerevoli scooter Honda che
assediano la capitale a ogni ora del giorno e della notte come sciami
di locuste a benzina.
Hanoi ha oltre sette
milioni di abitanti, ed è fatta per stupire. La prima parola che le
si associa, se riflettiamo sulla scena appena descritta, è
schizofrenia. Capitale di una repubblica socialista retta da un
partito unico – per semplificare: alla cinese – con l’aiutino
delle forze armate, ma assai disposta all’economia di mercato, è
oggi una delle città più trafficate e inquinate del Sud-Est
asiatico.
La categoria motociclo
costituisce il 60 per cento dei veicoli urbani, mentre la bicicletta
è rimasta il mezzo dei contadini, degli anziani e dei poveri. Eppure
questo venerdì sera accade il miracolo che si ripete da qualche
tempo. Con una decisione di sapore europeo l’intero lungolago, dove
di solito attraversare la strada è un azzardo a rischio morte, è
promosso per l’intero weekend a zona pedonale e night market,
con ampia sorveglianza di polizia. Finalmente si passeggia, si mangia
il gelato, si ascolta musica, si balla a ritmi occidentali, e
migliaia di smartphone scattano migliaia di immagini, come
avviene in piazza di Spagna o piazza del Duomo.
Al traino di una ripresa
economica molto vivace negli anni scorsi (un po’ meno di recente),
la metropoli asiatica è alla ricerca di una definizione di sé che
non sia più legata a Ho Chi Minh, ai vietcong, alla guerra, agli
americani prima e ai russi poi. Per rendersi attrattiva, Hanoi ha
come imboccato una doppia strada: da una parte quella della
globalizzazione dei consumi, dall’altra quella del recupero
identitario attraverso la storia che, nelle città, si esprime
attraverso i luoghi fisici, l’architettura, la forma urbis.
Già, la storia. Ma quale
storia, esattamente?
Una delle principali
novità, dopo decenni di tormentato dopoguerra e di predicazione
ideologica dall’alto, è la riapertura della Cittadella Imperiale
di Thang Long. La Cittadella, che dal 2010 gode del patrocinio
Unesco, è stata negli ultimi mille anni il centro del potere
militare della città. Oggi è un vasto rettangolo cintato di prati
verdi ben tenuti, liberamente accessibile agli abitanti come ai
forestieri, dove spiccano pochi edifici monumentali e i resti di
almeno quattro grandi dinastie, quanto rimane dopo le demolizioni dei
militari francesi prima e i bombardamenti americani poi. Ed ecco il
paradosso: oltre alla porta principale a pagoda, Doan Mon, che
introduceva al palazzo degli imperatori Lê, l’edificio meglio
tenuto e restaurato è la palazzina dell’Amministrazione militare
francese del 1897, di disegno neoclassico, a due piani e color
vaniglia. È proprio qui che gruppi di neolaureati, ragazzi e ragazze
vestiti da cerimonia (le ragazze in lungo con fiori nei capelli), si
mitragliano allegramente di foto ricordo. Del Palazzo imperiale,
demolito dagli occupanti che ne fecero il quartier generale
dell’artiglieria, sono rimaste solo due scalinate con dragoni in
pietra del quindicesimo secolo. Nella parte più protetta della
Cittadella, provvista di bunker, si riuniva, durante la guerra contro
gli americani, il comando del leggendario generale Giap.
Non è un caso isolato.
Al contrario. Il lascito coloniale dei francesi, quei francesi contro
i quali il movimento di liberazione di Ho Chi Minh si batté per
quindici anni con memorabile tenacia, prima di combattere l’esercito
americano intervenuto al Sud, è oggi al centro dell’attenzione
come mai in precedenza. Anche se al Museo Nazionale di Storia
Vietnamita – dove sono esposti tesori come i Libri d’oro
della dinastia Nguyen e un meraviglioso Buddha ligneo del IV secolo
che si direbbe la Pietà Rondanini locale – l’epoca della
colonizzazione, che iniziò dopo il 1850 e durò un secolo, è
concentrata incredibilmente in una sola stanza.
Ma se la politica
occulta, la realtà incalza. Il cosiddetto Quartiere Francese, subito
a sud del lago Hoan Kiem, sta vivendo una rinascita sorprendente. È
qui che troneggia, ottimamente restaurato, il palazzo dell’Opera di
Hanoi, costruito da architetti transalpini sul modello dell’Opéra
Garnier di Parigi e inaugurato nel 1911. Davanti all’Opera c’è
un quadrivio tremendamente trafficato, dove i risciò a pedali
sembrano dinosauri in estinzione: ma nei giardini brilla il
frequentatissimo Highlands Coffee con cameriere parlanti inglese e
ordinazioni gestite da “saponette” elettroniche distribuite ai
clienti. L’Opera ospita anche uno dei ristoranti di punta della
città, il Nineteen 11.
Dirimpetto c’è la
vecchia Borsa, con la sua brava statua del toro come a Wall Street;
sulla destra un gran palazzo abitato dai marchi di pregio italiani,
da Prada a Cucinelli a La Perla, e da uffici della finanza globale,
da World Bank a Deutsche Bank a Hongkong Land. Poco più avanti
rifulge, nel suo bianco splendore, l’albergo più prestigioso della
capitale, il Métropole: un perfetto oggetto della Belle Époque
costruito nel 1901, con le persiane verde scuro come un grand hotel
della Costa Azzurra. Oggi è proprietà della catena francese
Sofitel. Al piano terra è tutta una batteria di vetrine luccicanti,
da Hermès in giù. Il ristorante di punta si chiama Le Beaulieu,
il menu da sei portate costa 2 milioni di dong, circa 80 euro (in un
ristorante medio il turista medio ne spende 8). Davanti all’ingresso
sono parcheggiate due vecchie Citroën Traction Avant blu notte,
veramente chic. Coppie di sposi con le loro faccine fresche vengono
immortalate da fotografi nerovestiti nello stile del film Lost in
Translation. Intorno alla piscina interna bevono drink fino a
tarda sera i turisti più danarosi, la nomenklatura locale, i giovani
draghi della telefonia e dell’elettronica.
Dove fa shopping la Hanoi
bene? Al department store Trang Tien Plaza, sempre nel
Quartiere Francese, che parrebbe voler copiare le Galeries Lafayette:
agli angoli ha colonnati finto-classici color crema, dentro si
articola su cinque livelli con sfavillio di luci a Led; non vi è
quasi marchio del lusso occidentale che non sia rappresentato. E
pensare che poche centinaia di metri più a sud, all’ora di pranzo
i giovani impiegati come i vecchi bottegai si accoccolano su sgabelli
in plastica, agli angoli delle strade, a consumare il saporito street
food locale cotto su minuscoli fornelli appoggiati sull’asfalto.
Gran parte delle
ambasciate ha sede in palazzine coloniali, anche quelle di molte ex
nazioni del Patto di Varsavia, nonostante i russi, negli anni
Ottanta, abbiano lasciato pesanti tracce edilizie in cemento armato,
dalle sedi di partito agli enti della pubblica amministrazione. Le
grandi arterie che vanno a ovest verso il Palazzo Presidenziale, il
Parlamento, il Mausoleo di Ho Chi Minh – i viali Dien Bien Phu e
Tran Phu – ospitano una serie di ambasciate “francesizzanti”,
dalla Polonia all’Arabia Saudita. Né fa eccezione quella di
Germania e il Goethe-Institut: un edificio Belle Époque del primo
’900, poi diventato scuola per i figli dei funzionari russi, e oggi
proprietà dello Stato tedesco. Eredità coloniale anche il vicino
Museo delle Belle Arti, ricavato nell’ex ministero
dell’Informazione.
Quanto alla Old City, la
Città vecchia che si sviluppa su due lati del lago, è il solito
densissimo brulicare di persone e di botteghe vietnamite e cinesi,
con impressionanti fasci di cavi elettrici appesi in facciata. E lì,
non fosse per gli smartphone in mano a tutti, si potrebbe
forse dire che il tempo si è fermato al folklore da cartolina. In
effetti, le guide turistiche magnificano la Old City anche oltre i
suoi meriti. Senza volerne negare il fascino, qui si assiste
all’esito paradossale secondo cui la memoria coloniale, a livello
estetico e simbolico, lascia più tracce nel forestiero in visita
dell’identità della nazione indipendente. La quale fatica a
definire un proprio stile.
Detto un po’
bruscamente e senza offesa per la sovranità del Vietnam: non ci
fosse l’eredità coloniale – da vedere, fotografare, esplorare –
la città di Hanoi, pur con tutto il suo charme, sarebbe interessante
la metà.
Hanoi. Il mausoleo di Ho Chi Minh |
In realtà il rifugio
privato di Ho Chi Minh, almeno secondo la vulgata di Stato, stava
sulla sponda opposta del laghetto. È una casa piccolissima su
palafitte di semplicità quasi ascetica, detta Stilt House:
interamente in legno e stuoie vegetali, basata sulla ventilazione
naturale. Camera da letto, stanza da lavoro, servizi, veranda, poco
altro. Da questi minuscoli spazi il presidente Ho Chi Minh teorizzò,
impostò e combatté un paio di guerre per l’indipendenza della sua
nazione.
Ci giriamo intorno in
silenzio, con un senso di incredulità. Che dire, oggi? Piacerebbe,
forse, a un Papa Francesco.
Pagina 99, 10 dicembre
2016
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