Una città-parco,
profondamente radicata nella storia culturale del paese sudamericano
Brasilia è senz’altro
uno dei luoghi più emblematici e controversi della modernità.
Inaugurata il 21 aprile 1960 – un anno dopo il celebre Ciam di
Otterlo del 1959, il congresso di architettura che aveva
ufficializzato la fine del Movimento moderno ai cui precetti pure il
progetto della città si ispirava – è da subito oggetto di
entusiasmi e critiche. Se per André Malraux, allora ministro della
cultura francese, la città voluta dall’appena eletto presidente
Juscelino Kubitschek è «la capitale della speranza», per Bruno
Zevi è piuttosto una «capitale di plastici ingranditi (...) una
specie di Eur tutta razionale e priva delle marmoree sconcezze
piacentiniane, ma non per questo meno lugubre». E non c’è dubbio
che le forme dei suoi edifici più imponenti non mancano di evocare
quella grandeur metropolitana intrisa di esibizionismo tecnico e di
enfasi retorica che, dalle grandi esposizioni universali
dell’Ottocento in poi, ha sempre incarnato l’idea stessa di città
capitale.
Tuttavia, nonostante
l’incontrovertibile allure dei suoi monumenti, Brasilia è
stata qualcos’altro: un progetto politico prima che un segno
territoriale, una vicenda nazionale piuttosto che la sola ambizione
di un presidente illuminato, il racconto di un’idea di città
piuttosto che la mera pianificazione razionale di un nuovo
insediamento urbano dove l’architettura diventa l’icona
principale della propaganda, tanto più efficace quanto più capace
di attirare lo sguardo e commuovere.
In tutto questo Oscar
Niemeyer è stato molto più – o, se si vuole, molto meno – che
il designer degli edifici più rappresentativi che punteggiano il
cosiddetto asse monumentale e campeggiano nella grande distesa
centrale della piazza dei Tre Poteri.
Quando nel 1956 riceve la
visita di Kubitschek nella sua casa di Gávea, a Rio de Janeiro,
propone subito di bandire quel concorso internazionale per la
realizzazione del piano urbanistico della città, da cui uscirà il
rivoluzionario Plano Piloto di Lucio Costa, che di Nie-meyer
era amico stimato. Nominato direttore del Dipartimento di
architettura della Novacap, l’ente esecutivo per l’urbanizzazione
della nuova capitale, Niemeyer gioca allora un doppio, complesso
ruolo: da una parte progettista degli edifici pubblici più
importanti (il Palacio de Alvorada, la residenza del Presidente, la
casa dei deputati, il Congresso Nazionale, la Catedral Metropolitana
e diversi ministeri), dall’altro promotore dell’innovativa idea
di Costa, quella di una città-parco presentata in sede di concorso
in forma di racconto, ispirata tanto all’ingegneria autostradale
che alla tecnica paesistica dei giardini, ma allo stesso tempo
profondamente radicata nella storia culturale del paese.
Sullo sfondo dell’eroica
scommessa di celebrare la svolta politica realizzando –
letteralmente – una cattedrale nel deserto, emerge infatti
l’esigenza di dare corpo a una istanza secolare di costruzione di
un paese grande come l’Europa, che proprio dall’Europa
colonizzatrice voleva marcare la distanza. Una decisione maturata già
ai tempi del primo movimento indipedentista brasiliano,
l’Inconfidência Mineira (1789), e poi sancita nella
Costituzione del 1891 nella quale viene ribadita la scelta di
costruire la nuova capitale al centro del Brasile lontano
dall’urbanizza-zione portoghese della costa sud-orientale.
È a questo periodo che
risale, infatti, l’individuazione del Planalto central, l’area di
14.400 kmq su cui sarebbe poi sorta la nuova capitale, proprio sulla
scorta della localizzazione geografica e della qualità del
paesaggio. Paesaggio che diventa l’ingrediente principale del
progetto di Costa, ad esempio nel sistema residenziale delle
super-quadra, recinti di 300 metri di lato dove la sintesi tra
dimensione monu-mentale e carattere rurale dello spazio diventa il
ve-ro carattere della città.
Un progetto lungamente
meditato, dunque, quello di Brasilia, che vede il suo momentum
nei cinque anni di presidenza di Kubitschek, con Oscar Niemeyer,
Lucio Costa, il paesaggista Roberto Burle Marx e molti altri a
condividere una fase decisiva dello storico progetto di costruzione
politica del Brasile. Una fase destinata peraltro a interrompersi
bruscamente, cambiando di segno, in seguito al colpo di stato
militare che il 10 aprile del 1964 dà il via a una dittatura
repressiva che si protrarrà per più di vent’anni e che
costringerà, tra l’altro, Niemeyer, ormai sgradito in Brasile, a
un esilio forzato in Francia. Ma la svolta senza la cui audacia non
sarebbe possibile immaginare il Brasile di oggi, era già stata
compiuta.
“il manifesto”, 7
dicembre 2012
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