Politicissimo e
divertente come sempre, Loach è a Roma al seguito del suo ultimo
film, premio speciale della giuria a Cannes, La parte degli angeli
(nelle sale dal 13 dicembre, distribuisce Bim), il cui titolo poetico
si riferisce alla quota di whisky che evapora, quel2% di scotch
custodito nelle botti delle distillerie destinato a scomparire
nell'aria. «La sua fabbricazione è un'arte raffinata, per
descrivere la fragranza e l'aroma del whisky si usa un linguaggio
stravagante - dice – ma quel liquore è troppo caro per i giovani
che si ubriacano con bevande più economiche. Anche io, in fondo,
preferisco un bel bicchiere di vino!».
Una storia dai toni
«fruttati» quindi, mai zuccherosa, che segue l'esistenza
difficilissima di Robbie, teppistello di Glasgow che non sembra avere
grandi chance davanti a sé. Ha una fedina penale spaventosa ma, come
in una favola, s'imbatte in un tris di occasioni per il riscatto:
diventa padre, conquista un assistente sociale che non ha dimenticato
il valore della solidarietà e ha «naso» (pure palato) per
riconoscere la rarità di unwhisky,labevandana-zionale. Ce la farà a
tirarsi fuori dai guai, dopo uno spettacolare furto del preziosissimo
liquore e con l'aiuto di altri sbandati come lui. È stato lo
sceneggiatore Paul Laverty, collaboratore di lunga data del cineasta
a trovare Robbie (Paul Branningan), ragazzo che ha cominciato anche
la vita vera in salita, senzatetto a 13 anni, in carcere durante
l'adolescenza.
Il tema del lavoro e del
disagio della working class, Loach lo affronta ripartendo dal
suo gran rifiuto, la scelta di non ritirare nessun premio al festival
di Torino. «Mi è dispiaciuto, era un onore anche per tutti coloro
che lavorano con me, ma è stata una questione di principio, ho
preferito appoggiare i lavoratori ‘esternalizzati' del museo del
Cinema. Il problema era stato sollevato già in estate: salari
bassissimi, ulteriore taglio del 10% sugli stipendi, cinque iniqui
licenziamenti. Dal Museo mi hanno risposto che non sono responsabili
dell'operato di terzi, tantomeno dell'azienda che li aveva assunti.
Se si accetta questo, tutti possono declinare ogni responsabilità,
anche perché la sola ragione per cui viene dato lavoro esternamente
è l'abbattimento dei costi. Sono stato definito ‘megalomane', ma
il punto non è che io vada a un festival oppure no; centrale è la
perdita di lavoro, sono le persone sottopagate, con difficoltà di
rappresentanza sindacale...». Lui, quei lavoratori della Rear, li
incontrerà oggi a Torino.
In un momento sociale
così critico e dopo un film sulla guerra in Iraq, Loach con La
parte degli angeli ha voluto «raccontare la storia di milioni di
individui in Europa che non hanno lavoro né un futuro. Ma non ho
presentato nessuna vittima, per coinvolgere il pubblico bisognava
farlo affezionare ai personaggi e il senso dell'umorismo ha favorito
l'identificazione... Le avversità producono comicità. Ridere
insieme nelle circostanze più disperate può essere un atto di
solidarietà».
C'è qualcos'altro. In un
periodo storico aggredito dalla globalizzazione, Loach rispolvera una
gloria nazionale scozzese, come il whisky e le sue distillerie. «Il
whisky è prodotto da centinaia di anni, prescinde dalla
globalizzazione. Potremmo dire che andava molto meglio prima, quando
le distillerie non erano di proprietà delle grandi multinazionali.
Più il capitalismo si sviluppa, più crescerà la disoccupazione. Le
multinazionali hanno bisogno della disoccupazione per tenere bassi i
salari, per aggredire il costo del lavoro».
Esiste allora un modello
alternativo di economia? «È ora che la sinistra trovi il suo
motore, capisca che il mercato non è l'unica strada percorribile.
L'Europa ha preso una direzione comune che non è affatto strana, i
politici reagiscono tutti alla stessa maniera perché l'Unione
europea è un'organizzazione neoliberista, spinge per le
privatizzazioni. Anche in Grecia stanno svendendo ciò che hanno.
Quello che andrebbe infranto è il rapporto fra politici e
multinazionali. Così, ritornando al concetto di 'centrosinistra': se
significa accettare le misure di austerity e anche le privatizzazioni
ma con processi più lenti, allora non capisco la differenza che c'è
fra l'essere strangolati velocemente o piano piano».
Una via di uscita da
questa impasse, anche morale, ci sarebbe secondo Ken Loach:
basterebbe frugare nel passato e ricordarsi «com'eravamo». «Negli
anni Sessanta- continua - parlavamo della crisi del capitalismo.
Adesso è arrivata sul serio, è il momento di organizzarci. I vari
governi stanno strappando via gli ultimi brandelli della società
civile. Nel mio paese, tolgono il sostegno ai disabili, si
costringono le persone a vivere coni genitori, gli ospedali sono
affollati e hanno standard penosi. Noi non possediamo più nulla
dell'economia. È urgente un modello nuovo. Mi piace ripeterelo
slogan dei sindacati Usa: agitate, educate e organizzate».
E in una prospettiva di
lotta contro le degenerazioni del presente, il cinema è un soggetto
attivo? «I registi impegnati ci sono. Da Occupy ai movimenti
anti-guerra, la preoccupazione è mondiale, ma siccome il cinema è
un'industria e i filmmaker sono costretti a diventare imprenditori,
non sempre tutto questo si ritrova sul grande schermo. Il meccanismo
della produzione e dei finanziamenti ha un potere bloccante e le idee
a volte si trasformano per adattarsi al mercato». Però, assicura
Loach, c'è stato un periodo (quasi) peggiore di questo. «Gli anni
Ottanta, l'arrivo di Margaret Thatcher. Quello che è accaduto nel
nostro paese è stato talmente estremo che non riuscivo a rispondere
col cinema. In una manciata di mesi, i disoccupati salirono da
500mila a tre milioni, mentre le fabbriche chiudevano e i sindacati
indicevano scioperi che non potevano vincere. La situazione era
incontrollabile. Eravamo tutti in mezzo a una tempesta. Anche io. Ho
girato documentari (banditi perlopiù), poi ho provato al teatro
(rifiutato e tacciato di antisemitismo), dopo dieci anni ho avuto
fortuna e sono tornato ai film...».
il manifesto, giovedì 6
dicembre 2012
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