Una delle più robuste
radici dei discorsi sul Nordest fioriti negli ultimi vent’anni
risiede senz’altro nella precedente individuazione di un peculiare
«modello veneto» di sviluppo industriale. All’altezza degli anni
Settanta il «modello veneto» si fece anche proposta storiografica,
tesa alla riscoperta del ruolo centrale delle classi dirigenti
locali, delle istituzioni ecclesiastiche e dell’egemonia culturale
cattolica nella lunga formazione di quel particolare esito. A partire
dalla fine dell’Ottocento lo sviluppo industriale sarebbe stato
consapevolmente incanalato nell’alveo di rapporti sociali e di
culture «tradizionali», che avrebbero evitato le lacerazioni della
«modernità» facilitando così il mutamento.
Una nuova borghesia
Il rischio implicito in
quell’operazione storica stava nella can-cellazione delle culture e
delle soggettività dei gruppi subalterni, che nelle campagne
venivano spesso ascritti a un indifferenziato «mondo contadino»,
naturalmente rassegnato e «clericale». Lo ricordò con forza, già
nel 1981, la pubblicazione di Ribelli, questuanti e banditi,
una ricerca di Piero Brunello, che mostrava un volto ben diverso del
Veneto ottocentesco. A distanza di trent’anni il libro è ora
riedito dall’editore veronese Cierre, arricchito da una nuova
prefazione dell’autore, nella quale si ricostruisce la genesi di
quegli studi e il loro significato storiografico più complessivo,
nel quadro delle lotte sociali e delle pratiche storiche di ricerca
«dal basso» che caratterizzarono il lungo Sessantotto italiano.
L’oggetto del libro,
come specificato dal sottotitolo, sono le «proteste contadine in
Veneto e in Friuli», fra la restaurazione del dominio asburgico e la
sua fine definitiva, con annessione al Regno d’Italia (1814-1866).
In quei cinquant’anni si posero le premesse dell’Unità e dello
sviluppo capitalistico, grazie al sorgere di una nuova borghesia,
favorita dalle politiche di Vienna a favore dell’allargamento del
mercato.
Quelle stesse politiche,
ora assecondate, ora osteggiate dalle autorità locali (mentre il
governo di Venezia, così come il basso clero, si collocava su
posizioni di mediazione), suscitarono un vasto repertorio di
conflitti sociali. Il libro è organizzato, in maniera originale, per
tipologie di protesta, legate a contesti ambientali e sociali
precisi: i movimenti non erano infatti semplicemente «contadini»,
poiché le campagne erano stratificate, diversificate geograficamente
e solcate anche da conflitti interni, fra paese e paese, ma
soprattutto fra gruppi entro gli stessi villaggi, contro le letture
organiciste della «comunità» rurale.
Reati di lesa
proprietà
Come nel corso dell’età
moderna, nell’area veneta ancora per buona parte del XIX secolo i
conflitti di lavoro furono limitati e la protesta si concentrò
sull’acces-so alle risorse e sulla distribuzione. La
privatizzazione dei beni comunali e la rimozione degli usi civici,
sancita anche da una legge del 1839, impedì ai «comunisti», cioè
a braccianti, artigiani, affittuari e piccoli proprietari che in
quanto membri della comunità avevano accesso a quel-le risorse, di
sfruttare boschi e pascoli comuni per mantenere il bestiame e
raccogliere legna per il fuoco. Continuare a seguire il diritto
consuetudinario avrebbe dato luogo a reati di lesa proprietà: negli
stessi anni se ne occupò anche il giovane Marx, in uno dei suoi
primi scritti, come ha ricordato Daniel Bensaid ne Gli spossessati
(tradotto da un altro editore veronese, Ombre Corte, e recensito su
queste pagine da Benedetto Vecchi il 27 maggio 2009).
La risposta, specie in
Friuli, non si limitò ai furti, ma si articolò in suppliche,
minacce (lettere e cartelli anonimi, charivari), «attruppamenti»
(cioè manifestazioni di piazza) e invasioni di terre. Nelle zone
paludose del litorale o lungo il corso dei fiumi invece i «cannaroli»
si opponevano alle bonifiche e reclamavano il «vagantivo», il
diritto di caccia, pesca e raccolta nelle valli comunali, menzionando
esplicitamente, con un sorprendente uso pubblico del documento
storico, antiche concessioni altomedievali.
Su un altro versante
delle politiche di liberalizzazione, nei momenti di carestia o di
oscillazione dei prezzi dei cereali la protesta si concentrò nei
borghi artigianali e vide protagoniste le donne: miravano a impedire
l’«esportazione» dei grani fuori dall’area comunale,
contestavano le sempre più diffuse pratiche di incetta e
tumultuavano durante i mercati contro il venir meno delle politiche
assistenziali tradizionali, prendendo costantemente di mira i
proprietari ritenuti responsabili e costringendo spesso alla
reintroduzione del calmiere, che avrebbe dovuto essere rimosso in
ossequio alle direttive liberiste dell’Impero.
Il prezzo della
deferenza
Se nelle fasi di carestia
anche i montanari scendevano in città alla ricerca di assistenza, la
questua di gruppo si diffuse massicciamente nelle pianure del basso
Veneto alla metà del secolo, quando la crisi del 1853-54 rivelò la
trasformazione dei braccianti «obbligati» (legati da un patto
annuo, che prevedeva lavoro o assistenza nei mesi invernali) in
«avventizi» (assunti al bisogno in occasione dei lavori agricoli).
Assieme alle malattie,
colera e pellagra, segno di una crescente vulnerabilità, dilagarono
gli episodi di protesta, con richieste pubbliche di lavori pubblici o
anticipi di farina, oppure spedizioni presso i proprietari meno
accomodanti per esigere assistenza. Negli stessi contesti, specie nel
Rodigino, si riscontrò una recrudescenza della criminalità e
l’affiorare di forme di banditismo «sociale», con esplicite
rivendicazioni punitive e redistributive da parte delle bande e
relativa protezione da parte delle popolazioni.
Ribelli, questuanti e
banditi è uno dei libri italiani che ha maggiormente recepito la
lezione di Edward P. Thompson: mercato, borghesia e capitale
intaccarono lungo tutto il secolo l’«economia morale» costituita
da relazioni sociali paternalistiche che scambiano assistenza con
deferenza.
Ma la deferenza ha un
prezzo e la «cultura plebea» poteva rivelarsi ribelle se venivano
meno le condizioni di quello scambio. Non c’era spazio per la
passiva rassegnazione in queste società in transizione e la
distruzione dell’«economia morale» incontrò numerose resistenze.
La stessa sconfitta di quelle proteste aiuta a spiegare, al di là di
interpretazioni miserabiliste o economiciste, la grande emigrazione
di fine secolo, ultimo sussulto di rifiuto di un mondo sconvolto
dalla fine di
un’orizzonte di senso, oltre che dai colpi della crisi agraria. E
la contemporanea organizzazione di classe bracciantile, che pure
rappresentò l’adozione di nuove forme di conflitto e un
adeguamento alle ormai mutate regole del gioco (il mercato del lavoro
salariato), non si comprende senza questo retroterra.
Le resistenze del mondo
rurale erano del tutto consapevoli delle poste in gioco, come emerge
dalle voci dei protagonisti accuratamente raccolte da Brunel-lo negli
archivi di polizia e dei tribunali. Le azioni collettive del mondo
rurale esprimevano nel complesso una resistenza alla
proletarizzazione. Come ha ricordato Hobsbawm, non era solo
l’immiserimento a preoccupare chi protestava, perché la
proletarizzazione non aveva solo una dimensione economica, di
precarizzazione della sussistenza (la perdita delle risorse fino a
quel momento garantite lasciava a questi soggetti solo l’opportunità
di vendere le proprie braccia su un mercato del tutto incerto e li
esponeva maggiormente a subire le ricorrenti crisi agrarie), ma
rappresentava un declassamento sociale complessivo, per l’inasprirsi
della dipendenza e per il venir meno dello statuto di membro a pieno
titolo della comunità.
La percezione, tutto
sommato lucida, di questa prospettiva portava a protestare in nome
della consuetudine o dei diritti del passato, dunque di un quadro di
relazioni dato, ma talvolta le contraddizioni quotidiane spingevano a
guardare al futuro, a orizzonti più egualitari, come la
redistribuzione delle terre, incompatibili con le gerarchie sociali.
Quelle voci ci parlano ancora, dinanzi al ricorrente assalto alla
moderna forma di «economia morale» basata non più sulle relazioni
sociali locali, ma sul riconoscimento istituzionale del diritto del
lavoro e del welfare.
Processi e
bastonate
In un momento in cui il
conflitto è ritenuto patologia, da classificare nelle rubriche della
devianza o della criminalità, vale la pena riandare a queste storie
di artigiani, contadini e braccianti che reclamavano tutto sommato
piccole cose, un diritto alla sussistenza minacciato da nuovi ricchi
e vecchi poteri. Proprio come a loro, oggi ci viene detto che
un’ulteriore mercificazione (del lavoro come dell’acqua, della
formazione, della sanità, dei servizi municipali, etc.) è
necessaria, progressiva e iscritta nel nostro futuro e che non vale
la pena resistere.
Talvolta le parole
vengono sottolineate, proprio come nel loro caso, da bastonate e
processi, quasi a segnalare concretamente la continuità con la
repressione ottocentesca delle proteste contadine (la critica
liberista all’intervento pubblico non si è mai spinta fino a
mettere in discussione alcuni servizi essenziali garantiti dallo
Stato). Nonostante tutto, proprio come loro, continuiamo a lottare
per un altro futuro, ispirati dalla nostalgia di un diverso passato.
"il manifesto", 11 dicembre 2012
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