Posto con gratitudine
questa bella pagina di storia letteraria, scritta come recensione di
una intelligente antologia: DIDONE. LA TRAGEDIA DELL’ABBANDONO.
VARIAZIONI SUL MITO Virgilio, Ovidio, Boccaccio, Marlowe, Metastasio,
Ungaretti, Brodskij a cura di Antonio Ziosi, Marsilio, 2018.
(S.L.L.)
Illustrazione di Cecilio Rizzardini per il libretto del melodramma Didone abbandonata di Pietro Metastasio per la musica di Domenico Sarro |
Il giovane Agostino legge
le sventure di Didone e si commuove. A torto, come ricorda nelle
Confessioni. Versa lacrime per l'amaro fato della regina
cartaginese, abbandonata e spinta al suicidio; manda a memoria gli
errori di Enea, mentre, prima della conversione, ignora i propri. Al
lettore di Agostino non serve neppure ricordare l’autore di questa
storia, la più nota di tutta la letteratura latina, e l’unica,
diranno i detrattori romantici dell’Eneide di Virgilio,
degna di confronto con i capolavori dei greci. Della tragedia greca
la storia di Didone è erede sofisticata, penetrante. È tragica,
prima di tutto, la contrapposizione senza speranza tra l’amore
della donna per lo straniero improvvisamente arrivato dal mare e il
destino che viene imposto ad Enea, quello di proseguire per l’Italia
e gettare le fondamenta di un nuovo impero. Ma impostata sui ritmi e
i toni della tragedia è l’intera struttura drammatica
dell’episodio: dopo un prologo nel primo libro del poema, Virgilio
imposta il quarto in veri e propri ’atti’ che segnano il percorso
inesorabile verso la fuga di Enea e la morte di Didone. E ancora,
tragici sono i principali modelli che si leggono in filigrana: la
passione violenta della Medea di Euripide, il suicidio dell’Aiace
sofocleo.
Pochi anni dopo la morte
di Virgilio, Ovidio celebra la qualità eccelsa di questa narrazione
complessa, stratificata, perturbante. Lui stesso ne offre una lettura
sottile, che recupera linee di tensione dissimulate, semina dubbi,
suggerisce varianti. Dopo, il dialogo di poeti, pittori e compositori
con testo principe della poesia romana prosegue ininterrotto per se
coli; l’antologia curata da Antonio Ziosi, corredata da un ampio
saggio introduttivo ricco di spunti originali, consente di
ripercorrerne alcune delle tappe letterarie più stimolanti, dai
recentissimi Brodskij e Ungaretti proprio a Ovidio, primo lettore e
primo critico dell’Eneide, il cui racconto delle vicende di Didone
Brodskij proclama “più convincente” del modello virgiliano.
Come sempre accade per
testi letterari che mobilitano a livelli altissimi sapienza
compositiva e genialità espressiva, ogni generazione, ogni autore,
reagisce in modo originale, costruisce una “sua” Didone. Erede di
un lungo dibattito stimolato dai padri della Chiesa, per esempio,
Boccaccio delinea una Didone castissima, che preferisce la morte al
disonore delle seconde nozze. Prevale però, di norma, un’altra
Didone, disperatamente innamorata, vittima umana di uno schema
divino, quello della fondazione di Roma, che calpesta senza remore i
desideri e le aspirazioni dell’individuo: lo stesso amore di Didone
è frutto dell’interessato intervento di Venere, preoccupata di
assicurare al figlio una sosta tranquilla sulle rive africane.
Sconfitta e sacrificata prima ancora che si alzi il sipario, Didone è
incarnazione di una perdita e di un lutto. Muore con lei la
dimensione umana del sentimento contrapposta all’imperscrutabile
onnipotenza degli dei; muore la sua Cartagine, che i discendenti di
Enea metteranno davvero a ferro e fuoco, amplificando le fiamme della
pira sacrificale su cui si immola Didone e che Enea scorge da lontano
mentre fugge.
Per i contemporanei,
Didone è soprattutto simbolo di esilio, perdita, distruzione. I Cori
di Didone di Ungaretti decostruiscono in testi brevi e spezzati,
la solida architettura epica del libro virgiliano. Ispirati alla
poesia per musica di Monteverdi, anche questi Cori saranno
musicati da Luigi Nono nel 1958, un lontano omaggio al Didone ed
Enea seicentesco di Henry Purcell. Ma questa Didone è emblema di
un declino esistenziale, ridotta a «cosa in rovina e abbandonata»,
come la sua città, che «anche le sue macerie perse» quando i
Romani versarono sale sulle mure abbattute di Cartagine per
assicurarsi che mai sarebbe risorta. Una Didone non lontana, per
molti versi, dal Palinuro che Cyril Connolly, pochi decenni prima,
aveva identificato come emblema di una melancolia esistenziale, di un
allontanamento dagli spiriti vitali (non è un caso che Palinuro
abbia esercitato un fascino notevole anche su Ungaretti). E neppure
dalla Didone di Brodskij, vittima di altri esili e di altre crudeltà
del potere.
“Il Sole 24 Ore –
Domenica”, 2 settembre 2018
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