Trovo brillante e, a
tratti, commovente questo ricordo di Ungaretti da parte di un poeta
più giovane nel centenario della nascita. Ne consiglio la lettura.
(S.L.L.)
Giuseppe Ungaretti |
Ho letto per la prima
volta delle poesie di Ungaretti a metà degli anni Venti, sul finire
della mia adolescenza, nella troppo dimenticata antologia Poeti
d'oggi di Papini e Pancrazi. In quegli stessi anni, dal '25 in
giù, mi sono comprato gli Ossi di seppia di Montale. Non c'
era una segnaletica (voglio dire pagine letterarie), allora, che
guidasse un ragazzo voglioso di poesia nuova, moderna; ma i nomi che
contavano e che avrebbero contato, chissà come arrivavano al suo
orecchio. Poi c'era da arrangiarsi, aiutavano una mente sveglia e un
po' di fortuna. Così, un giorno, rovistando fra molti Barion (oh,
utilissimi con tutti quei russi tradotti da Rinaldo Kufferle), mi
venne fra le mani l'Allegria di naufragi nell'edizione
Vallecchi. Fondo di magazzino o copia destinata ad un critico
infastidito che se n'era liberato, poi che con suo sollievo non
recava una dedica e poteva rifilarla al buon bancarellaro
pontremolese spacciatore di carta stampata nella mia città? Bene.
Attilio Bertolucci |
Quei due re magi della
nostra poesia dovevano, qualche tempo dopo, ricompensare il
giovanotto, ormai, che aveva creduto in loro, per loro trascurando la
scuola, da loro ricevendo versi che, immagazzinati nelle celle della
memoria, resistono intatti, non si perdono come tanti altri letti
molti anni dopo. Mi spiego: nel '34 si ebbe a Firenze, nella
primavera, quella novità, in tempi di sciroccosa bonaccia, che
furono i Littoriali della Cultura e dell'Arte. Presidente per il
concorso di poesia Giuseppe Ungaretti, il quale, bontà sua, volle
premiare Sinisgalli e me. Ed ecco che il destino accomunò i due
neoteroi al Maestro nella riprovazione di un fondo del Tevere,
sì proprio l'editoriale in neretto del direttore Interlandi, di
norma destinato al dileggio di bolscevichi e di demoplutocrati. La
ragione di tale insolita arrabbiatura non politica ma culturale, i
temi di alcune nostre poesie (usignuoli lacustri e fagiane nevicate),
quando altro degnissimo giovane aveva cantato, non male, la bonifica
mussoliniana delle paludi pontine. Ungaretti, e anche noi, ci ridemmo
sopra, lui con la forza omerica che chi l' ha conosciuto può
ricordare. Pubblicate in un volumetto, le mie poesie premiate ai
Littoriali ricevettero lodi dal Montale recensore della rivista Pan.
Com'era spazioso il campo letterario allora e in contrasto
all'atmosfera politica, limpida l'aria, così limpida che due grandi
poeti potevano scorgere e identificare gli apprendisti e
incoraggiarli, aiutarli.
Dovevo ritrovare e
frequentare Ungaretti, trasferitomi a Roma nel '51. Ormai arrivati
all'amicizia, al tu (per me all'inizio difficoltosissimo) e, poi che
ero diventato, con qualche viaggio a Firenze e l'annuale, comune
vacanza in Versilia, amico anche di Montale, avevo da destreggiarmi
nella conversazione con essi evitando di mostrarmi e dell'uno e
dell'altro ammiratore. Nel soggiorno di casa ho messo di fronte su
due pareti le testimonianze della generosità dei due: un quadretto
delizioso di Montale e un'incisione, firmata e numerata, di Fautrier,
che Ungaretti aveva avuto in dono dall'autore e della quale volle
gratificarmi ficcandomela nella borsa, di nascosto da un suo
segretario che la concupiva da anni. Ricordo d'avergli dato un gran
dispiacere un giorno che la nipotina essendogli arrivata d'impeto
nello studio, io commisi l'imprudenza di chiedergli se aveva imparato
l'arte di essere nonno. Non gli garbava affatto di essere chiamato
nonno, citando poi Victor Hugo. Mi difesi rammentandogli il debito
del suo Baudelaire verso il non suo Victor Hugo.
Incurvato come una pianta
può esserlo, se esposta a un vento gagliardo, segnato nel volto,
conservava dentro gli occhi una luce di giovinezza datagli dalla
possibilità, dalla capacità, durata sino alla fine, di
meravigliarsi e di amare. Doveva morire nel mio Nord, che gli avevo
fatto conoscere portandolo a incantarsi dinnanzi ai marmi rosa del
Battistero di Parma, alle sculture di Benedetto Antelami. So che
nell'ultima stagione della sua vita volle tornare ad ammirarli.
Chissà se di nuovo, sul limitare della notte, preferisse ancora alle
sublimi lunette cristiane, l'enigma dello Zooforo con la sua sequenza
di formelle in cui arcieri e animali fantastici, ochette naviganti e
testoni di villici padani, così armonicamente sposano il vero e
l'immaginario in una scansione ritmica simile, nel suo mistero, alla
musica della poesia.
“la Repubblica”, 4
febbraio 1988
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