16.12.18

Pancrazio De Pasquale e Pio La Torre processati per “populismo”. Bufalini sulla storia del Pci in Sicilia (Marcello Sorgi)

Pio La Torre alla Camera del lavoro di Palermo durante una riunione della Federbraccianti
C’è un capitolo dimenticato, eppure emblematico, nella storia del Pci, un episodio di lotta interna nella Sicilia degli anni Cinquanta. È il primo scontro di un certa importanza fra vecchio e nuovo gruppo dirigente, in cui si mescolano il partito semiclandestino uscito dalla guerra e quello del “nuovo corso” di Togliatti; Secchia con Stalin; l'illusione di una “rivoluzione dei contadini” al posto di quella “canonica” degli operai. Pio La Torre, il dirigente comunista assassinato dalla mafia, lo ha rievocato nel suo libro "Comunisti e movimento contadino in Sicilia". Paolo Bufalini, uno dei grandi nomi del Pci, fu uno dei protagonisti: era stato mandato a Palermo da Togliatti come segretario della federazione e vicesegretario regionale, per rimettere pace nel partito siciliano e riportarlo all’unità. Bufalini oggi ha 74 anni: è nel Pci dal 1937; s’è formato politicamente durante la Resistenza come partigiano
Paolo Bufalini con Lucio Magri ed Enrico Berlinguer
nel Montenegro. A Roma, nel dopoguerra diventa giovanissimo uno dei diretti collaboratori di Togliatti. Trent’anni dopo sarà l’uomo più vicino a Berlinguer nella stagione del “compromesso storico”. La sua carriera politica è stata intensa: dalla direzione alla segreteria, alla commissione centrale di controllo che ha presieduto tino a due anni fa. Ma non lo ha mai distolto dagli studi classici. Bufalini ha scritto molti libri, di politica. E per diletto, anche una raccolta di traduzioni oraziane, "
A Leuconoe".

E oggi, senatore Bufalini, cosa ricorda di quella sua esperienza siciliana di quasi quarant’anni fa?
«A lei, dunque, interessa soprattutto quella vicenda di cui parla Pio La Torre nel suo bel libro, ricco e vivace, nel quale in appendice è pubblicato il verbale di una riunione del comitato regionale del Pci del novembre 1950. Parliamone pure, anche se, muovendo di lì, i problemi della Sicilia e dell’azione del Pei in Sicilia verranno visti di scorcio. È una storia in cui fui coinvolto, non dico mio malgrado, ma a sorpresa. Nel 1950, all’epoca dei fatti, io non ero mai stato in Sicilia: ero segretario regionale dell’Abruzzo ed ero impegnato nell’organizzazione di ampie lotte operaie e contadine per il lavoro e la terra, e soprattutto nella lotta del Fucino che portò all’espropriazione dei Torlonia. Una sera d’autunno, a Pescara, mi fu consegnato un telegramma di Pietro Secchia, che era allora il vicesegretario del partito responsabile per l’organizzazione: “Vieni subito. Secchia”. Pensai a una riunione di ordinaria amministrazione, di quelle che si facevano periodicamente a Roma con i dirigenti della periferia».

Invece, cosa accadde a Botteghe Oscure?
«Appena arrivato, Secchia mi disse: “Preparati che domani vieni con me a Palermo. C’è una situazione critica nel partito, Togliatti è preoccupato e la segreteria ha deciso che tu ti trasferisca lì come vicesegretario regionale e segretario della federazione di Palermo. Farò io la proposta al comitato regionale. Partiremo domattina, in aereo”. Così, l’indomani mi ritrovai a Palermo.
Pancrazio De Pasquale
Ma cos’era successo di tanto grave da richiedere una missione d’emergenza del vicesegretario del partito?
«Le dico subito che, al di là del tono dei verbali, Secchia, e io con lui, su direttiva della segreteria del partito, andammo a Palermo per stemperare l’asprezza delle critiche, recuperare i giovani quadri e avviare un’opera di ricostruzione dell’unità del partito su un piano di chiarezza politica. Intendiamoci, lo scontro c’era. Si era venuta via via delineando, più o meno consapevole o spontanea, un’opposizione alla direzione regionale che faceva capo a “Mommo” Li Causi, una delle personalità più forti ed eminenti, nazionale e siciliana, del partito, ad alcuni dei vecchi compagni del gruppo storico della clandestinità e ad alcuni dei giovani quadri. Al movimento, diciamo così, e alla tendenza di opposizione, che aveva come punto di riferimento la federazione di Palermo diretta da Pancrazio De Pasquale, partecipavano molti dei giovani che erano venuti al partito e si erano formati nella Resistenza e nel dopoguerra, sull’onda delle lotte contadine. De Pasquale, appunto, era il giovane più promettente di questa generazione, che allineava già nomi come Pio La Torre e molti altri che avrebbero avuto un futuro di primissimo piano nel Pci».

Qual era la ragione del contendere? Stando all’atto d’accusa, oggi si direbbe che i giovani peccavano di “movimentismo”. Vagheggiavano una sorta di “rivoluzione dei contadini” senza prestare la “dovuta” attenzione raccomandata alla classe operaia. Non impegnandosi a fondo nella “costruzione del partito”, peccavano di “spontaneismo”.
«C’era qualcosa di vero in tutto questo. Ma in realtà questi giovani si erano gettati con grande impegno nell’organizzazione delle lotte contadine (e anche in quelle operaie, per esempio al Cantiere navale di Palermo); perciò non si può parlare di “movimentismo”: ché, al contrario, tutto l’impegno era posto nel costruire, organizzare e dirigere i movimenti che scaturivano dai contrasti di classe e politici. Ma essi, per così dire, saltavano l’autonomia siciliana, non comprendevano fino in fondo la specificità della questione siciliana; si collegavano direttamente alla piattaforma della “Rinascita del Mezzogiorno”, e quindi a Napoli, a Giorgio Amendola. Guardavano con sufficienza la direzione regionale, pur rispettando, ma forse sottovalutando, l’alta personalità di Li Causi: una segreteria regionale che ai loro occhi appariva tutta impegnata nella questione istituzionale e politica dell’autonomia e nell’attività di vertice».

Insomma consideravano Li Causi e gli altri dirigenti contestati un po’ troppo “parlamentaristi”?
«Sì, ma per farle capire devo prima spiegarle com’era organizzato il Pei nel dopoguerra. Togliatti aveva ricostruito il partito riunendo attorno a sé una nuova generazione di dirigenti (io allora avevo trent’anni); ma dava molta importanza alle personalità del movimento comunista, socialista e democratico di ogni regione e città: come appunto Li Causi in Sicilia, Fausto Gullo in Calabria, Giorgio Amendola in Campania, Arturo Colombi in Emilia, Velio Spano in Sardegna e così via. Accanto a questi compagni, che ricoprivano tutti o quasi la carica di segretario regionale, il partito dal Centro spesso inviava un “istruttore”, che aveva il compito di occuparsi dell’organizzazione in senso stretto e di mantenere i contatti con la direzione nazionale (la commissione d’organizzazione diretta da Pietro Secchia). Ma una simile forma di organizzazione - che in alcuni casi, in quel periodo, era risultata utile - non sempre aveva portato a metodi del tutto corretti dal punto di vista democratico .

In sostanza, il consolato non funzionava?
«Diciamo che non funzionava tutte le volte che il dirigente inviato da Roma interpretava il suo mandato nel senso di sentirsi l’uomo di fiducia del partito, più di ogni altro abilitato a interpretare la linea, il modo in cui il partito veniva organizzato e con cui venivano formati e scelti i suoi quadri, e a riferirne a Roma, formulando critiche e proposte spesso all’insaputa del segretario regionale. In questi casi nascevano degli attriti, in particolare nel Mezzogiorno, dove non c’era una tradizione di lotte e di movimenti di massa, e il partito, al momento della sua rifondazione, era affidato a compagni rientrati dalla clandestinità e ai giovani intellettuali. Fra me e Li Causi però - ci tengo a precisarlo - non andò così: per tutto il periodo in cui rimasi in Sicilia instaurai con lui un rapporto di piena correttezza democratica e lealtà».

E in precedenza, invece, com’era andata? Chi era stato inviato in Sicilia prima di lei?
«Erano già stati mandati tre istruttori, Marino Mazzetti, Paolo Robotti e Armando Fedeli. Mazzetti era un buon dirigente, animatore e formatore di nuovi quadri, organizzatore: i giovani, molti dei quali poi sarebbero stati al centro delle polemiche, si formarono sotto di lui. Robotti era un uomo di un’altra generazione, aveva un atteggiamento fideistico, quasi una religione del comunismo. Rigorosissimo, vittima delle torture staliniane sopportate con forza e dignità esemplari, a Mosca, in carcere nell’epoca del terrore, si era rifiutato di dichiararsi colpevole di cose che non aveva commesso. Ma non per questo Robotti aveva maturato un atteggiamento critico verso lo stalinismo. Anzi, era tale la sua fede, che era convinto di essere stato vittima di un errore della polizia politica».
Girolamo Li Causi con Paolo Robotti
Come fu accolto Robotti in Sicilia?
«Col rispetto e l’affetto che meritava la sua figura, di quadro di origine operaia formatosi alla scuola di Gramsci, ma in pratica senza che riuscisse ad avere alcuna presa politica. Li Causi lo definiva “un dominicano”. Poi si accese una polemica nel corso di una lezione della scuola di partito. Robotti aveva convocato gli intellettuali per raccomandargli di studiare e far conoscere la Storia del pc(b), del partito bolscevico, il testo con quel famoso quarto capitolo sul materialismo dialettico scritto da Stalin. Si decise di cominciare a leggerlo nel corso della riunione. A un certo punto si alzò un anziano professore di liceo e disse: “Scusa compagno, ma questa non è storia: è solo propaganda!”. Robotti la prese come una bestemmia. Il professore fu allontanato dal partito. Toccò a me richiamarlo, qualche anno dopo».

E Fedeli, il suo predecessore, com’era? Certo, non ebbe una bella eredità.
Armando Fedeli
«Se Robotti era un fideista, Fedeli, che pure era un compagno operaio, forte combattente, aveva una mentalità scolastica, ma soprattutto aveva il chiodo fisso della vigilanza rivoluzionaria, della difesa del partito dagli attacchi esterni, ma anche da deviazioni interne, da elementi che pensava dovessero essere nel partito non saldi e sicuri. Aveva avuto compiti di vigilanza nel periodo fascista, e poi di scuola di partito, e applicava scolasticamente le direttive dei libri. Ma con questo, chiamiamolo così, “bagaglio culturale”, il suo confronto coi giovani irrequieti compagni siciliani non poteva avere buon esito. Detto fatto, dopo una serie di richiami ai compagni più impegnati nel movimento contadino, Fedeli istruì un’inchiesta con metodi molto personali e inviò al centro del partito un rapporto in cui chiedeva provvedimenti disciplinari per una quindicina di compagni, a cominciare da De Pasquale».

Espulsione, radiazione o che altro: e sulla base di quali accuse?
«Forse non l’espulsione, probabilmente radiazione o altri provvedimenti. Quanto alle accuse, sulla carta, si parlava di “populismo” e “attività antipartito”. Questi giovani, sosteneva Fedeli (tra loro vi era anche Pio La Torre, in carcere dalla primavera del 1950 per l’occupazione delle terre a Bisacquino) si dedicano troppo ai contadini, alle leghe bracciantili, alla lotta per la terra e trascurano gli altri doveri dei comunisti, la preparazione ideologica e la costruzione del partito. L’accusa più grave riguardava la maldicenza: Fedeli aveva accertato che alcuni compagni, in “riunioni fuori dagli organi di partito” avevano criticato l’azione dei dirigenti locali e in particolare di Li Causi».

Vede, senatore, come traspare la tesi della “rivoluzione dei contadini”?
«Mi consenta, io non credo che il problema fosse la rivoluzione, come lei mi pare la intenda, e se farla e con chi. Magari, data la terminologia in uso a quei tempi, qualche interpretazione confusa era possibile. Ma per noi dirigenti vicini a Togliatti era chiaro che la linea del Pei era centrata sulle lotte democratiche di massa, per le riforme di struttura e per il rinnovamento democratico del Paese, per la costruzione su basi nuove della democrazia repubblicana, contro il tentativo di restaurazione del vecchio ordine prebellico. Questa era la nostra “rivoluzione”! Per Togliatti questo processo aveva in Sicilia una frontiera importantissima».

Ma non così o non sempre per i giovani comunisti siciliani d’allora, par di capire: in cosa, senatore, si avvertiva questa diversa sensibilità?
«Tradurre la linea dell’unità nazionale, in Sicilia, voleva dire da un lato lottare contro il separatismo, dall’altro assicurare all’isola una sua particolare collocazione nello Stato nazionale, che garantisse una sua libertà, una sua forma di autogoverno su base parlamentare integrata nel sistema costituzionale italiano, la riforma agraria, la riparazione dei torti storici subiti: cioè, l’autonomia. Di fronte all’inquietante fenomeno del separatismo, Togliatti indicò la linea: “La Sicilia ha fame di terra e sete di libertà”, rivendicando per la Sicilia uno Statuto di autonomia speciale. Tale linea permetteva di differenziare e dividere il movimento separatista, la sua parte agraria conservatrice e reazionaria, dalla parte indipendentista democratica. Togliatti insisteva su questo perché sapeva che le spinte esterne, centrifughe e separatiste, nel dopoguerra erano molto forti e corrispondenti anche a un sentimento diffuso delle popolazioni isolane. Ricordava il Gramsci sardista delle origini, che nelle prime lotte per la liberazione della sua terra si era spinto a ipotizzare un’unità italiana con Sardegna e Sicilia federate».

Ma in Sicilia cera un’anima separatista nel Pci?
«No, no: al contrario. Nei primi anni era diffuso un atteggiamento di incomprensione settaria verso l’indipendentismo preso in blocco, senza distinzioni. Erano anche gli anni in cui i giovani comunisti lottarono strenuamente nell’isola per assicurare un movimento di partecipazione alla guerra di liberazione nazionale. C’era, però, un’anima del separatismo, quella che faceva capo all’avvocato Nino Varvaro, democratico, di sinistra, di ideali socialisti, che finì col trovare in noi, con Li Causi, una convergenza sempre più profonda. Fino a che verso la fine degli anni Cinquanta, Varvaro, già anziano, si iscrisse al nostro partito. Sottovalutare il separatismo, l’importanza delle scelte sul futuro siciliano, dunque, sarebbe stato un errore: e infatti Togliatti e Li Causi, in tutti i loro discorsi, parlavano del rischio di trasformare la Sicilia in una “grande portaerei al centro del Mediterraneo”».
Paolo Bufalini, Pompeo Colajanni e Girolamo Li Causi in una manifestazione del PCI
Sia più esplicito, senatore: sta dicendo che ancora nel 1950, in piena “guerra fredda’’, quando lei arrivò a Palermo, l’idea di fare della Sicilia l’ultima stella della bandiera americana non era tramontata?
«Non del tutto. L’interesse strategico inglese e americano e le conseguenti pressioni sul movimento separatista erano stati fortissimi nell’immediato dopoguerra, a cavallo della nascita e del primo periodo di attività della regione autonoma siciliana. Poi, la rottura del patto di unità nazionale e il mancato consolidamento delle istituzioni repubblicane facevano temere colpi di mano istituzionali. Un ritorno della monarchia in Italia, dopo il referendum vinto dalla Repubblica, appariva improbabile. Ma di un recupero monarchico, magari affidato a un piccolo regno fantoccio siciliano, con dietro le grandi potenze occidentali, si sentì parlare. E con l’avvento della guerra fredda, non c’era proprio da star tranquilli in Sicilia».

Nel senso che la pressione americana si faceva sentire anche per voi comunisti? Lei ebbe modo di constatarla personalmente?
«Personalmente no, o almeno non direttamente: credo che quel che accadeva, accadeva a Roma. Però ho un ricordo nettissimo della durezza di due interventi del ministro dell’interno Scelba nel 1951, in occasione di due decisioni dell’Assemblea regionale: dopo il voto unanime dei deputati siciliani contro la bomba atomica e dopo la mozione per l’abolizione dei prefetti in Sicilia. Scelba, per dimostrare che anche se l’autonomia esisteva il vero garante delle decisioni restava lo Stato centrale, dichiarò subito che la seconda decisione non sarebbe stata attuata. A questo noi reagimmo con una grande mobilitazione di massa, che ci permise di rilanciare il tema dell’autonomia e della rinascita della Sicilia».

Ma questa battaglia per l’unità nazionale e per l’unità dell’Italia con la Sicilia, Togliatti e il Pei la fecero veramente per conto proprio? O non cera, di fronte alla pressione americana, una spinta uguale e contraria dell’Urss?
«Certo che c’era: e come vede, io non ho alcuna difficoltà ad ammetterlo perché penso che il nostro impegno fu giusto e autenticamente nazionale. D’altra parte, l’Urss fu la prima delle nazioni vincitrici a riconoscere il governo di Salerno, insediatosi nell’Italia appena liberata. E non fu questa decisione corrispondente a un primario vitale interesse dell’Italia? E ancora, se mi consente: cos’altro avrebbe dovuto fare il Pci? Rassegnarsi a vedere la Sicilia, a poco a poco, sfilata via dall’Italia?».

Senatore, resta da raccontare l’epilogo di quel “processo” che ci ha dato lo spunto per questa ricostruzione.
«Finì bene, o comunque meglio di com’era partito. All’inizio, in alcune federazioni, vi era una grande confusione. “Tu hai parlato male di Li Causi”, accusava uno. E un altro: “Eri tu che lo criticavi alle spalle”. A un certo punto io mi rivolsi a Secchia da una parte e gli dissi: “Scusami, ma non capisco più niente. Siamo a Pirandello: così è se vi pare!”. Secchia mi guardò un attimo, e: “Ma come?” reagì, “si vede chiaro che Fedeli, per far parlare i giovani, gli mandava i suoi a fingersi dissidenti”. Così, proprio Secchia, l’uomo ricordato come il più severo custode della disciplina del Pci (ma io lo ricordo anche equilibrato e comprensivo e di temperamento cordiale) pronunciò una “sentenza” clemente. Qualcuno dei compagni siciliani disse che il partito era stato troppo “generoso”. Secchia concluse che quei giovani forse avevano sbagliato per difetto di preparazione, ma andavano recuperati. De Pasquale era già stato inviato a scuola di partito. Io lo sostituii come segretario di Palermo. Rimase per qualche tempo a Roma, fu trasferito a Genova, poi tornò in Sicilia e non mi pare che la sua prestigiosa carriera abbia risentito di quell’episodio. Quanto agli altri, sì e no furono ammoniti, fecero autocritica e presto me li ritrovai accanto come collaboratori».

Insomma, fu una forma di stalinismo alla siciliana?
«Non credo si possa parlare di stalinismo. La riunificazione fu conseguita sulla base di una chiara linea politica: il rilancio dell’impostazione togliattiana dell’autonomia, lo stretto collegamento fra lotte operaie, contadine e popolari con l’autonomia quale piattaforma di unità di tutte le forze sane della Sicilia per la sua libertà e la sua rinascita. Del resto, per questo rilancio autonomistico a cui seguirono avanzate elettorali del Pci, del Blocco del popolo e della lista per l’autonomia e la rinascita della Sicilia, vi erano premesse profonde e solide. Pensi alle lotte per la terra, a tanto sangue dei nostri dirigenti versato. Si cominciò a Villalba quando la mafia fece sparare su Li Causi, che rimase ferito, mentre Emanuele Macaluso gli era al fianco. Poi l’assassinio del compagno Accursio Miraglia, a Sciacca, nel 1947. Poi tutti gli altri martiri di questa lotta, a decine, a centinaia. E si pensi alle battaglie per l’acqua e l’irrigazione, contro la mafia dei pozzi, e quelle per l’emancipazione e il lavoro degli zolfatari contro concessionari sfruttatori e mafiosi».

Alcune mosse dei dirigenti siciliani sono state talvolta al centro di critiche. Di Li Causi qualcuno considerò esagerato il suo appello al bandito Giuliano: lei che ne pensa?
«Li Causi, a Portella della Ginestra, il primo maggio 1950, ricordando la strage del 1947, lanciò l’appello che lei ricorda: “Parla, Giuliano, sennò t’ammazzano”. Aveva ragione, come s’è visto subito dopo. Poi si rivolse al luogotenente di Giuliano, Pisciotta. “Parla, sennò t’ammazzano”. Ed ebbe ancora, tragicamente, ragione. Era caratteristica propria di Li Causi far seguire sempre a invettive e condanne l’appello alla rottura di legami criminosi, al riscatto. Era il modo di farsi Stato in una regione in cui lo Stato vero spesso ha abdicato davanti alla mafia».

E Pompeo Colajanni, il comandante partigiano “Barbato”: troppa teatralità, troppa retorica all’antica, dicevano di lui. Era vero?
«Di Pompeo raccontavano che un giorno, scendendo dal treno, e abbracciando, come soleva fare, tutta una fila di persone, non si accorse che in mezzo c’era anche il capostazione! Ma Barbato era come Garibaldi: e in quante occasioni con la sua presenza di spirito si salvò! Una volta, davanti alla miniera di Lercara Friddi, da un lato c’erano i minatori e le loro donne pronti allo sciopero. Dall’altro i poliziotti a centinaia, schierati per caricare. E nell’alba piovosa, sotto gli ombrelli, come provocatori, avanzavano un gruppetto nero di crumiri e mafiosi, che andavano e venivano dalla strada della miniera. Pompeo arriva, comincia a parlare, e riesce non so come a passare in rivista la truppa! Lo sciopero fu vinto. E da quel giorno, su Barbato, a Lercara si formò una leggenda».

E adesso, dopo quasi quarant’anni cosa le è rimasto di quella parentesi siciliana?
Paolo Bufalini
«Soprattutto, il ricordo di grandi amici scomparsi e no: i più importanti li ho già menzionati, ma fra i giovani d’allora con cui facemmo insieme un bel pezzo di strada, voglio citare, con Pio La Torre, Lillo Roxas e Feliciano Rossitto e le compagne Anna Grasso e Jolanda Varvaro. Poi ci sono quelli che erano dei giovanissimi, e sono venuti a Roma a coronare la loro carriera: Emanuele Macaluso e molti altri. Concludendo, in Sicilia, abitando a Palermo, rimasi sei anni, fino all’autunno del 1956. Mi crede se le dico che quando fui richiamato a Roma, per entrare in segreteria, non volevo più ripartire?».

“Storia illustrata”, Agosto 1989

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