Pio La Torre alla Camera del lavoro di Palermo durante una riunione della Federbraccianti |
C’è un capitolo
dimenticato, eppure emblematico, nella storia del Pci, un episodio di
lotta interna nella Sicilia degli anni Cinquanta. È il primo scontro
di un certa importanza fra vecchio e nuovo gruppo dirigente, in cui
si mescolano il partito semiclandestino uscito dalla guerra e quello
del “nuovo corso” di Togliatti; Secchia con Stalin; l'illusione
di una “rivoluzione dei contadini” al posto di quella “canonica”
degli operai. Pio La Torre, il dirigente comunista assassinato dalla
mafia, lo ha rievocato nel suo libro "Comunisti e movimento
contadino in Sicilia". Paolo Bufalini, uno dei grandi nomi del
Pci, fu uno dei protagonisti: era stato mandato a Palermo da
Togliatti come segretario della federazione e vicesegretario
regionale, per rimettere pace nel partito siciliano e riportarlo
all’unità. Bufalini oggi ha 74 anni: è nel Pci dal 1937; s’è
formato politicamente durante la Resistenza come partigiano
nel
Montenegro. A Roma, nel dopoguerra diventa giovanissimo uno dei
diretti collaboratori di Togliatti. Trent’anni dopo sarà l’uomo
più vicino a Berlinguer nella stagione del “compromesso storico”.
La sua carriera politica è stata intensa: dalla direzione alla
segreteria, alla commissione centrale di controllo che ha presieduto
tino a due anni fa. Ma non lo ha mai distolto dagli studi classici.
Bufalini ha scritto molti libri, di politica. E per diletto, anche
una raccolta di traduzioni oraziane, "A Leuconoe".
Paolo Bufalini con Lucio Magri ed Enrico Berlinguer |
E oggi, senatore
Bufalini, cosa ricorda di quella sua esperienza siciliana di quasi
quarant’anni fa?
«A lei, dunque,
interessa soprattutto quella vicenda di cui parla Pio La Torre nel
suo bel libro, ricco e vivace, nel quale in appendice è pubblicato
il verbale di una riunione del comitato regionale del Pci del
novembre 1950. Parliamone pure, anche se, muovendo di lì, i problemi
della Sicilia e dell’azione del Pei in Sicilia verranno visti di
scorcio. È una storia in cui fui coinvolto, non dico mio malgrado,
ma a sorpresa. Nel 1950, all’epoca dei fatti, io non ero mai stato
in Sicilia: ero segretario regionale dell’Abruzzo ed ero impegnato
nell’organizzazione di ampie lotte operaie e contadine per il
lavoro e la terra, e soprattutto nella lotta del Fucino che portò
all’espropriazione dei Torlonia. Una sera d’autunno, a Pescara,
mi fu consegnato un telegramma di Pietro Secchia, che era allora il
vicesegretario del partito responsabile per l’organizzazione:
“Vieni subito. Secchia”. Pensai a una riunione di ordinaria
amministrazione, di quelle che si facevano periodicamente a Roma con
i dirigenti della periferia».
Invece,
cosa accadde a Botteghe Oscure?
«Appena arrivato,
Secchia mi disse: “Preparati che domani vieni con me a Palermo. C’è
una situazione critica nel partito, Togliatti è preoccupato e la
segreteria ha deciso che tu ti trasferisca lì come vicesegretario
regionale e segretario della federazione di Palermo. Farò io la
proposta al comitato regionale. Partiremo domattina, in aereo”.
Così, l’indomani mi ritrovai a Palermo.
Pancrazio De Pasquale |
«Le dico subito che, al
di là del tono dei verbali, Secchia, e io con lui, su direttiva
della segreteria del partito, andammo a Palermo per stemperare
l’asprezza delle critiche, recuperare i giovani quadri e avviare
un’opera di ricostruzione dell’unità del partito su un piano di
chiarezza politica. Intendiamoci, lo scontro c’era. Si era venuta
via via delineando, più o meno consapevole o spontanea,
un’opposizione alla direzione regionale che faceva capo a “Mommo”
Li Causi, una delle personalità più forti ed eminenti, nazionale e
siciliana, del partito, ad alcuni dei vecchi compagni del gruppo
storico della clandestinità e ad alcuni dei giovani quadri. Al
movimento, diciamo così, e alla tendenza di opposizione, che aveva
come punto di riferimento la federazione di Palermo diretta da
Pancrazio De Pasquale, partecipavano molti dei giovani che erano
venuti al partito e si erano formati nella Resistenza e nel
dopoguerra, sull’onda delle lotte contadine. De Pasquale, appunto,
era il giovane più promettente di questa generazione, che allineava
già nomi come Pio La Torre e molti altri che avrebbero avuto un
futuro di primissimo piano nel Pci».
Qual
era la ragione del contendere? Stando all’atto d’accusa, oggi si
direbbe che i giovani peccavano di “movimentismo”. Vagheggiavano
una sorta di “rivoluzione dei contadini” senza prestare la
“dovuta” attenzione raccomandata alla classe operaia. Non
impegnandosi a fondo nella “costruzione del partito”, peccavano
di “spontaneismo”.
«C’era qualcosa di
vero in tutto questo. Ma in realtà questi giovani si erano gettati
con grande impegno nell’organizzazione delle lotte contadine (e
anche in quelle operaie, per esempio al Cantiere navale di Palermo);
perciò non si può parlare di “movimentismo”: ché, al
contrario, tutto l’impegno era posto nel costruire, organizzare e
dirigere i movimenti che scaturivano dai contrasti di classe e
politici. Ma essi, per così dire, saltavano l’autonomia siciliana,
non comprendevano fino in fondo la specificità della questione
siciliana; si collegavano direttamente alla piattaforma della
“Rinascita del Mezzogiorno”, e quindi a Napoli, a Giorgio
Amendola. Guardavano con sufficienza la direzione regionale, pur
rispettando, ma forse sottovalutando, l’alta personalità di Li
Causi: una segreteria regionale che ai loro occhi appariva tutta
impegnata nella questione istituzionale e politica dell’autonomia e
nell’attività di vertice».
Insomma
consideravano Li Causi e gli altri dirigenti contestati un po’
troppo “parlamentaristi”?
«Sì, ma per farle
capire devo prima spiegarle com’era organizzato il Pei nel
dopoguerra. Togliatti aveva ricostruito il partito riunendo attorno a
sé una nuova generazione di dirigenti (io allora avevo trent’anni);
ma dava molta importanza alle personalità del movimento comunista,
socialista e democratico di ogni regione e città: come appunto Li
Causi in Sicilia, Fausto Gullo in Calabria, Giorgio Amendola in
Campania, Arturo Colombi in Emilia, Velio Spano in Sardegna e così
via. Accanto a questi compagni, che ricoprivano tutti o quasi la
carica di segretario regionale, il partito dal Centro spesso inviava
un “istruttore”, che aveva il compito di occuparsi
dell’organizzazione in senso stretto e di mantenere i contatti con
la direzione nazionale (la commissione d’organizzazione diretta da
Pietro Secchia). Ma una simile forma di organizzazione - che in
alcuni casi, in quel periodo, era risultata utile - non sempre aveva
portato a metodi del tutto corretti dal punto di vista democratico .
In sostanza, il
consolato non funzionava?
«Diciamo che non
funzionava tutte le volte che il dirigente inviato da Roma
interpretava il suo mandato nel senso di sentirsi l’uomo di fiducia
del partito, più di ogni altro abilitato a interpretare la linea, il
modo in cui il partito veniva organizzato e con cui venivano formati
e scelti i suoi quadri, e a riferirne a Roma, formulando critiche e
proposte spesso all’insaputa del segretario regionale. In questi
casi nascevano degli attriti, in particolare nel Mezzogiorno, dove
non c’era una tradizione di lotte e di movimenti di massa, e il
partito, al momento della sua rifondazione, era affidato a compagni
rientrati dalla clandestinità e ai giovani intellettuali. Fra me e
Li Causi però - ci tengo a precisarlo - non andò così: per tutto
il periodo in cui rimasi in Sicilia instaurai con lui un rapporto di
piena correttezza democratica e lealtà».
E in precedenza,
invece, com’era andata? Chi era stato inviato in Sicilia prima di
lei?
«Erano già stati
mandati tre istruttori, Marino Mazzetti, Paolo Robotti e Armando
Fedeli. Mazzetti era un buon dirigente, animatore e formatore di
nuovi quadri, organizzatore: i giovani, molti dei quali poi sarebbero
stati al centro delle polemiche, si formarono sotto di lui. Robotti
era un uomo di un’altra generazione, aveva un atteggiamento
fideistico, quasi una religione del comunismo. Rigorosissimo, vittima
delle torture staliniane sopportate con forza e dignità esemplari, a
Mosca, in carcere nell’epoca del terrore, si era rifiutato di
dichiararsi colpevole di cose che non aveva commesso. Ma non per
questo Robotti aveva maturato un atteggiamento critico verso lo
stalinismo. Anzi, era tale la sua fede, che era convinto di essere
stato vittima di un errore della polizia politica».
«Col rispetto e
l’affetto che meritava la sua figura, di quadro di origine operaia
formatosi alla scuola di Gramsci, ma in pratica senza che riuscisse
ad avere alcuna presa politica. Li Causi lo definiva “un
dominicano”. Poi si accese una polemica nel corso di una lezione
della scuola di partito. Robotti aveva convocato gli intellettuali
per raccomandargli di studiare e far conoscere la Storia del pc(b),
del partito bolscevico, il testo con quel famoso quarto capitolo sul
materialismo dialettico scritto da Stalin. Si decise di cominciare a
leggerlo nel corso della riunione. A un certo punto si alzò un
anziano professore di liceo e disse: “Scusa compagno, ma questa non
è storia: è solo propaganda!”. Robotti la prese come una
bestemmia. Il professore fu allontanato dal partito. Toccò a me
richiamarlo, qualche anno dopo».
E Fedeli, il suo
predecessore, com’era? Certo, non ebbe una bella eredità.
Armando Fedeli |
«Se Robotti era un
fideista, Fedeli, che pure era un compagno operaio, forte
combattente, aveva una mentalità scolastica, ma soprattutto aveva il
chiodo fisso della vigilanza rivoluzionaria, della difesa del partito
dagli attacchi esterni, ma anche da deviazioni interne, da elementi
che pensava dovessero essere nel partito non saldi e sicuri. Aveva
avuto compiti di vigilanza nel periodo fascista, e poi di scuola di
partito, e applicava scolasticamente le direttive dei libri. Ma con
questo, chiamiamolo così, “bagaglio culturale”, il suo confronto
coi giovani irrequieti compagni siciliani non poteva avere buon
esito. Detto fatto, dopo una serie di richiami ai compagni più
impegnati nel movimento contadino, Fedeli istruì un’inchiesta con
metodi molto personali e inviò al centro del partito un rapporto in
cui chiedeva provvedimenti disciplinari per una quindicina di
compagni, a cominciare da De Pasquale».
Espulsione, radiazione
o che altro: e sulla base di quali accuse?
«Forse non l’espulsione,
probabilmente radiazione o altri provvedimenti. Quanto alle accuse,
sulla carta, si parlava di “populismo” e “attività antipartito”. Questi giovani,
sosteneva Fedeli (tra loro vi era anche Pio La Torre, in carcere
dalla primavera del 1950 per l’occupazione delle terre a
Bisacquino) si dedicano troppo ai contadini, alle leghe bracciantili,
alla lotta per la terra e trascurano gli altri doveri dei comunisti,
la preparazione ideologica e la costruzione del partito. L’accusa
più grave riguardava la maldicenza: Fedeli aveva accertato che
alcuni compagni, in “riunioni fuori dagli organi di partito”
avevano criticato l’azione dei dirigenti locali e in particolare di
Li Causi».
Vede, senatore, come
traspare la tesi della “rivoluzione dei contadini”?
«Mi consenta, io non
credo che il problema fosse la rivoluzione, come lei mi pare la
intenda, e se farla e con chi. Magari, data la terminologia in uso a
quei tempi, qualche interpretazione confusa era possibile. Ma per noi
dirigenti vicini a Togliatti era chiaro che la linea del Pei era
centrata sulle lotte democratiche di massa, per le riforme di
struttura e per il rinnovamento democratico del Paese, per la
costruzione su basi nuove della democrazia repubblicana, contro il
tentativo di restaurazione del vecchio ordine prebellico. Questa era
la nostra “rivoluzione”! Per Togliatti questo processo aveva in
Sicilia una frontiera importantissima».
Ma non così o non
sempre per i giovani comunisti siciliani d’allora, par di capire:
in cosa, senatore, si avvertiva questa diversa sensibilità?
«Tradurre la linea
dell’unità nazionale, in Sicilia, voleva dire da un lato lottare
contro il separatismo, dall’altro assicurare all’isola una sua
particolare collocazione nello Stato nazionale, che garantisse una
sua libertà, una sua forma di autogoverno su base parlamentare
integrata nel sistema costituzionale italiano, la riforma agraria, la
riparazione dei torti storici subiti: cioè, l’autonomia. Di fronte
all’inquietante fenomeno del separatismo, Togliatti indicò la
linea: “La Sicilia ha fame di terra e sete di libertà”,
rivendicando per la Sicilia uno Statuto di autonomia speciale. Tale
linea permetteva di differenziare e dividere il movimento
separatista, la sua parte agraria conservatrice e reazionaria, dalla
parte indipendentista democratica. Togliatti insisteva su questo
perché sapeva che le spinte esterne, centrifughe e separatiste, nel
dopoguerra erano molto forti e corrispondenti anche a un sentimento
diffuso delle popolazioni isolane. Ricordava il Gramsci sardista
delle origini, che nelle prime lotte per la liberazione della sua
terra si era spinto a ipotizzare un’unità italiana con Sardegna e
Sicilia federate».
Ma in Sicilia cera
un’anima separatista nel Pci?
«No, no: al contrario.
Nei primi anni era diffuso un atteggiamento di incomprensione
settaria verso l’indipendentismo preso in blocco, senza
distinzioni. Erano anche gli anni in cui i giovani comunisti
lottarono strenuamente nell’isola per assicurare un movimento di
partecipazione alla guerra di liberazione nazionale. C’era, però,
un’anima del separatismo, quella che faceva capo all’avvocato
Nino Varvaro, democratico, di sinistra, di ideali socialisti, che
finì col trovare in noi, con Li Causi, una convergenza sempre più
profonda. Fino a che verso la fine degli anni Cinquanta, Varvaro, già
anziano, si iscrisse al nostro partito. Sottovalutare il separatismo,
l’importanza delle scelte sul futuro siciliano, dunque, sarebbe
stato un errore: e infatti Togliatti e Li Causi, in tutti i loro
discorsi, parlavano del rischio di trasformare la Sicilia in una
“grande portaerei al centro del Mediterraneo”».
Paolo Bufalini, Pompeo Colajanni e Girolamo Li Causi in una manifestazione del PCI |
Sia più esplicito,
senatore: sta dicendo che ancora nel 1950, in piena “guerra
fredda’’, quando lei arrivò a Palermo, l’idea di fare della
Sicilia l’ultima stella della bandiera americana non era
tramontata?
«Non del tutto.
L’interesse strategico inglese e americano e le conseguenti
pressioni sul movimento separatista erano stati fortissimi
nell’immediato dopoguerra, a cavallo della nascita e del primo
periodo di attività della regione autonoma siciliana. Poi, la
rottura del patto di unità nazionale e il mancato consolidamento
delle istituzioni repubblicane facevano temere colpi di mano
istituzionali. Un ritorno della monarchia in Italia, dopo il
referendum vinto dalla Repubblica, appariva improbabile. Ma di un
recupero monarchico, magari affidato a un piccolo regno fantoccio
siciliano, con dietro le grandi potenze occidentali, si sentì
parlare. E con l’avvento della guerra fredda, non c’era proprio
da star tranquilli in Sicilia».
Nel senso che la
pressione americana si faceva sentire anche per voi comunisti? Lei
ebbe modo di constatarla personalmente?
«Personalmente no, o
almeno non direttamente: credo che quel che accadeva, accadeva a
Roma. Però ho un ricordo nettissimo della durezza di due interventi
del ministro dell’interno Scelba nel 1951, in occasione di due
decisioni dell’Assemblea regionale: dopo il voto unanime dei
deputati siciliani contro la bomba atomica e dopo la mozione per
l’abolizione dei prefetti in Sicilia. Scelba, per dimostrare che
anche se l’autonomia esisteva il vero garante delle decisioni
restava lo Stato centrale, dichiarò subito che la seconda decisione
non sarebbe stata attuata. A questo noi reagimmo con una grande
mobilitazione di massa, che ci permise di rilanciare il tema
dell’autonomia e della rinascita della Sicilia».
Ma questa battaglia
per l’unità nazionale e per l’unità dell’Italia con la
Sicilia, Togliatti e il Pei la fecero veramente per conto proprio? O
non cera, di fronte alla pressione americana, una spinta uguale e
contraria dell’Urss?
«Certo che c’era: e
come vede, io non ho alcuna difficoltà ad ammetterlo perché penso
che il nostro impegno fu giusto e autenticamente nazionale. D’altra
parte, l’Urss fu la prima delle nazioni vincitrici a riconoscere il
governo di Salerno, insediatosi nell’Italia appena liberata. E non
fu questa decisione corrispondente a un primario vitale interesse
dell’Italia? E ancora, se mi consente: cos’altro avrebbe dovuto
fare il Pci? Rassegnarsi a vedere la Sicilia, a poco a poco, sfilata
via dall’Italia?».
Senatore, resta da raccontare l’epilogo di quel “processo” che ci ha dato lo spunto per questa ricostruzione.
«Finì bene, o comunque
meglio di com’era partito. All’inizio, in alcune federazioni, vi
era una grande confusione. “Tu hai parlato male di Li Causi”,
accusava uno. E un altro: “Eri tu che lo criticavi alle spalle”.
A un certo punto io mi rivolsi a Secchia da una parte e gli dissi:
“Scusami, ma non capisco più niente. Siamo a Pirandello: così è
se vi pare!”. Secchia mi guardò un attimo, e: “Ma come?”
reagì, “si vede chiaro che Fedeli, per far parlare i giovani, gli
mandava i suoi a fingersi dissidenti”. Così, proprio Secchia,
l’uomo ricordato come il più severo custode della disciplina del
Pci (ma io lo ricordo anche equilibrato e comprensivo e di
temperamento cordiale) pronunciò una “sentenza” clemente.
Qualcuno dei compagni siciliani disse che il partito era stato troppo
“generoso”. Secchia concluse che quei giovani forse avevano
sbagliato per difetto di preparazione, ma andavano recuperati. De
Pasquale era già stato inviato a scuola di partito. Io lo sostituii
come segretario di Palermo. Rimase per qualche tempo a Roma, fu
trasferito a Genova, poi tornò in Sicilia e non mi pare che la sua
prestigiosa carriera abbia risentito di quell’episodio. Quanto agli
altri, sì e no furono ammoniti, fecero autocritica e presto me li
ritrovai accanto come collaboratori».
Insomma, fu una forma
di stalinismo alla siciliana?
«Non credo si possa
parlare di stalinismo. La riunificazione fu conseguita sulla base di
una chiara linea politica: il rilancio dell’impostazione
togliattiana dell’autonomia, lo stretto collegamento fra lotte
operaie, contadine e popolari con l’autonomia quale piattaforma di
unità di tutte le forze sane della Sicilia per la sua libertà e la
sua rinascita. Del resto, per questo rilancio autonomistico a cui
seguirono avanzate elettorali del Pci, del Blocco del popolo e della
lista per l’autonomia e la rinascita della Sicilia, vi erano
premesse profonde e solide. Pensi alle lotte per la terra, a tanto
sangue dei nostri dirigenti versato. Si cominciò a Villalba quando
la mafia fece sparare su Li Causi, che rimase ferito, mentre Emanuele
Macaluso gli era al fianco. Poi l’assassinio del compagno Accursio
Miraglia, a Sciacca, nel 1947. Poi tutti gli altri martiri di questa
lotta, a decine, a centinaia. E si pensi alle battaglie per l’acqua
e l’irrigazione, contro la mafia dei pozzi, e quelle per
l’emancipazione e il lavoro degli zolfatari contro concessionari
sfruttatori e mafiosi».
Alcune mosse dei
dirigenti siciliani sono state talvolta al centro di critiche. Di Li
Causi qualcuno considerò esagerato il suo appello al bandito
Giuliano: lei che ne pensa?
«Li Causi, a Portella
della Ginestra, il primo maggio 1950, ricordando la strage del 1947,
lanciò l’appello che lei ricorda: “Parla, Giuliano, sennò
t’ammazzano”. Aveva ragione, come s’è visto subito dopo. Poi
si rivolse al luogotenente di Giuliano, Pisciotta. “Parla, sennò
t’ammazzano”. Ed ebbe ancora, tragicamente, ragione. Era
caratteristica propria di Li Causi far seguire sempre a invettive e
condanne l’appello alla rottura di legami criminosi, al riscatto.
Era il modo di farsi Stato in una regione in cui lo Stato vero spesso
ha abdicato davanti alla mafia».
E Pompeo Colajanni, il
comandante partigiano “Barbato”: troppa teatralità, troppa
retorica all’antica, dicevano di lui. Era vero?
«Di Pompeo raccontavano
che un giorno, scendendo dal treno, e abbracciando, come soleva fare,
tutta una fila di persone, non si accorse che in mezzo c’era anche
il capostazione! Ma Barbato era come Garibaldi: e in quante occasioni
con la sua presenza di spirito si salvò! Una volta, davanti alla
miniera di Lercara Friddi, da un lato c’erano i minatori e le loro
donne pronti allo sciopero. Dall’altro i poliziotti a centinaia,
schierati per caricare. E nell’alba piovosa, sotto gli ombrelli,
come provocatori, avanzavano un gruppetto nero di crumiri e mafiosi,
che andavano e venivano dalla strada della miniera. Pompeo arriva,
comincia a parlare, e riesce non so come a passare in rivista la
truppa! Lo sciopero fu vinto. E da quel giorno, su Barbato, a Lercara
si formò una leggenda».
E adesso, dopo quasi
quarant’anni cosa le è rimasto di quella parentesi siciliana?
Paolo Bufalini |
“Storia illustrata”,
Agosto 1989
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