Soluzioni
stilistiche mai ovvie e talvolta accostabili alle avanguardie per
l'autore di «Tre operai» e di «Amore amaro»
Che gli scrittori - gli
artisti - sfuggano a delimitazioni e classificazioni è sempre segno
salutare, garanzia di vitalità e di longevità: così avviene,
felicemente, per un narratore considerato antesignano del neorealismo
ma che non è solo neorealista. Carlo Bernari, di cui ricorrono i
vent'anni dalla morte, esordì nel 1934, giovanissimo (era nato a
Napoli nel 1909), con Tre operai, romanzo di grande energia e novità
in un panorama letterario - pieni anni Trenta -, che iniziava sì a
protendersi alla forma narrativa lunga, ma in cui era ancora amata la
prosa d'arte. E in cui, soprattutto, la poesia conosceva la sua
stagione ermetica. Senza esitare Mussolini censurò Tre operai con
uno stizzito «comunismo!». Già struttura e tessitura dell'opera
d'esordio rivelano l'urgenza da cui era mosso Ber-nari: il desiderio
di approssimarsi il più possibile alla verità cercando «la realtà
della realtà», come diceva. Non si limitava alla mimesi, né
fletteva verso il populismo.
La sua scrittura
prediligeva soluzioni stilistiche non ovvie - «una punteggiatura non
convenzionale, usata in funzione espressiva (come in Tozzi)», ha
scritto Francesca Bernardini cui si deve una riedizione in Oscar di
Tre operai (2005) -, soluzioni talvolta accostabili alle avanguardie
- «tecniche visive e sensoriali (tra l'espressionismo e il
surrealismo)», ha notato Rocco Capozzi -, o dovute a forme
individuali di sperimentazione. Dovute, in particolare,
all'equilibrio (meglio cooperazione strutturale) di ragione e
fantasia. È stato un autore sensibile a divari e difficoltà sociali
e culturali dei suoi personaggi - che è forse riduttivo, oggi,
considerare solo «personaggi» -, eppure capace di soluzioni prive
di patetismi, e ricche di aperture, di commistioni tra soggettività
emotiva e storia, come Amore amaro (1958). Tanto che si è parlato,
per lui, di «realismo critico» (Capozzi) e di «realismo
spettrale», come ha fatto Goffredo Bellonci a proposito di Tre
operai e Tre casi sospetti (1946); o di «memoria, meraviglia e
angoscia», come fece lo stesso Bernari per un suo romanzo del '71,
Il foro nel parabrezza.
Bernari ha sempre sentito
un grande bisogno di aderenza e partecipazione ai tempi, di
testimonianza e azione nel presente, basti pensare che nel 1929, in
pieno fascismo e secondo futurismo, con Guglielmo Peirce e Paolo
Ricci firmò il Manifesto UDA – Unione Ditruttivisti Attivisti. Ma
si pensi anche al suo impegno antifascista pagato con interdizione
della sua firma dalla stampa e clandestinità forzata.
A questo scrittore di
produzione sfaccettata, fotografo fine e percettivo, autore di
reportages di guerra in Norvegia, Grecia e Albania, e poi di viaggio
e di testimonianza dalla Cina e da Napoli, co-autore di sceneggiature
- nel 1962 per Le quattro giornate di Napoli, nel 1967 per L'immorale
-, sarà dedicato a Roma il convegno internazionale Carlo Bernari,
nel ventennale della morte, il 10 e 11 dicembre, presso il Museo
Laboratorio della Sapienza. Il convegno, cui parteciperanno, tra gli
altri, Francesca Bernardini, Aldo Maria Morace, Rocco Capozzi,
Silvana Cirillo, Anthony Verna, Ugo Vignuzzi, Aldo Mastropasqua,
Enrico Bernard, Patrizia Bertini Malgarini, indagherà il rapporto
della scrittura di Bernari con le arti visive e performative, ottimi
strumenti d'analisi socio-politica, e presenterà ricognizioni su
dattiloscritti, documenti e corrispondenza conservati presso
l'Archivio del Novecento della Sapienza.
Quelle che Bernari
definiva le sue «menzogne narrative» non sono estranee a una linea
alta di narrativa didattica e morale o, come ha dichiarato in
un'intervista, a un impegno inteso non in senso sartriano ma «come
coscienza conflittuale del mondo reale». D'altro canto, in una
lettera del 1950 a Gastone Manacorda, scriveva che le grandi opere
«non sono mai spuntate nei pascoli di Arcadia, ma sono germinate
sulle steppe della Paura, non sono testimonianza di un
pargoleggiamento idillico, ma di una concezione tragica della vita».
“il manifesto”, 7
dicembre 2012
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