12.3.11

Facce di casa mia (di Mario Rigoni Stern)

Lo scrittore Mario Rigoni Stern a un raduno di alpini.
Il 14 marzo del 2007, in occasione del conferimento della laurea honoris causa da parte dell'Università di Genova allo scrittore Mario Rigoni Stern, "La Stampa" ne pubblicò la lectio magistralis, in realtà un magnifico racconto. Quasi una metafora. (S.L.L:)
Little Italy, New York City, 1956. Photo by Leonard Freed/Magnum
Nell'autunno del 1982 mi trovavo a Vienna sull'invito dell'Istituto Italiano di Cultura. Alla fine dell'incontro si avvicino' un signore che esclamò: «Sono il tuo compaesano Anton Forte Sciràn della contrada Làmara...». Mi raccontò di suo padre che era partito dall'Italia alla fine dell'Ottocento e con i cavalli aveva lavorato a trasportare materiali da costruzione. Poi nacque lui, studiò da geometra; i suoi figli erano ingegneri. Pure essendo nato in Austria, mi mostrò con orgoglio il passaporto con cittadinanza italiana; parlava il nostro dialetto con flessioni antiche e mi raccontò anche che nel 1938, dopo l'occupazione dell'Austria da parte di Hitler, ebbe delle grane perche' lo ritenevano un ebreo camuffato. Nella primavera del 1983 ero a Praga. Durante una cena ufficiale mi trovai accanto a un distinto signore che di proposito mi avevano accostato sapendo i miei interessi. Era una specie di ministro per i Beni ambientali e artistici. Alle mie curiosità rispondeva attraverso l'interprete; ma quando alla fine mi diede il suo biglietto da visita rimasi perplesso: era un cognome della mia terra e solo la i finale era diventata y. Scopersi così che era il pronipote di quel compaesano sovraintendente alle Cantine Imperiali nel Castello di Hradcany, che ricordo nel mio racconto Storia di Tonle. Da allora, quando per qualche motivo mi venivo a trovare in Paesi d'Europa, sfogliavo con curioso interesse le guide telefoniche, e non mi era difficile leggere nostri cognomi; forse anche di parenti che negli anni tra le guerre avevano sceso i sentieri per cercare una vita migliore.
L'Europa, i nostri emigranti, l'hanno fatta prima che i politici si riunissero per parlarne. Ogni tanto, quando scendo in paese nel giorno di mercato, incontro qualcuno che mi saluta con tanto trasporto e solamente dalla fisionomia capisco che è della tale famiglia o della tale contrada, e dai vestiti se viene dall'America, o dall'Australia, dal Nord dell'Europa o dalla Francia o dal Medio Oriente. Sono sempre ex compagni di scuola, o di guerra, o amici di famiglia che sovente mi portano i saluti di mia sorella da Chicago, o di mio fratello da Melbourne, o di cugini dall'Argentina, o di amici dal Canada. Quest'estate senza alcun preavviso è venuto a trovarmi dalla California il figlio di un mio prozio, che mai era stato in Europa e che voleva vedere il paese da dove erano partiti i suoi quasi cento anni fa. Aveva sposato una irlandese e venne con sua moglie. Canuto e alto, roseo in viso, aveva conservato nell'aspetto l'impronta della nostra famiglia; a parlar con noi usava quel po' di dialetto che, bambino, aveva sentito dai suoi genitori prima che l'inglese diventasse la lingua di casa. Il suo stupore fu grande, grande in due sensi: ritrovava nel paesaggio dei boschi e della montagna i racconti e i ricordi del padre, ma non nelle case che erano state ricostruite con altri criteri dopo la distruzione della Grande guerra. Ancora meno ritrovava la maniera di vivere che, riteneva, era più agiata e piu' splendida che nella California. Diceva nel suo buffo linguaggio: «E' sempre così in Italia? Sempre festa? E chi lavora?». Ma lui vedeva gli studenti in vacanza, la gente in ferie e i turisti; il traffico automobilistico fatto con le fuoristrada, e moto da cross, e gente che si divertiva a comperare nelle bancarelle. «Se vieni in novembre», gli dicevo, «vedi ben altro paese. Non è sempre così» . Era difficile fargli capire che non era sempre festa, che a settembre tutto sarebbe ritornato tranquillo e che qualcosa di quei lavori di cui aveva sentito parlare quando era bambino a Detroit da noi esistevano ancora, che le motoseghe avevano sostituito le scuri, il martello pneumatico la mazza e la punta e il trattore i cavalli. Boscaioli, malghesi, pastori, cavatori di marmo in questa estate rumorosa erano spariti per le stramberie varie e i fuochi artificiali. «Qui in Italia siete tutti ricchi», insisteva lui, «più ricchi che in America. Oh ia'!». Prima di ritornarsene per sempre in California volle vedere anche Venezia e Vienna, Firenze e Parigi. Le sue emozioni furono fortissime e il suo stupore quasi infantile: «E' questa l'Europa?». Il suo orgoglio di cittadino americano veniva ridimensionato non solo dai segni della storia e dai capolavori dell'arte, ma anche dalla nostra maniera di vivere. Ma se da uno così, figlio di emigranti e pensionato dell'Amministrazione degli Stati Uniti, che solo aveva ascoltato storie di miseria, si possono ben capire stupore e ammirazione, ben differente e' il ritorno per breve vacanza o per qualche necessita' degli emigranti della seconda generazione; quelli che andarono lontano attorno agli Anni 50: partigiani, reduci, ex fascisti. Partivano a centinaia con le navi della Flotta Lauro, dopo aver racimolato in qualche modo i soldi per il viaggio: o con la liquidazione del Distretto Militare, o con la vendita di qualche proprietà, o con un prestito, o con il ricavo di un lavoro maledetto come quello del recupero del materiale bellico; e molte volte, quando si trovavano fuori dalle acque del Mediterraneo, il loro viaggio diventava un inferno, quasi come ai tempi del «passaporto rosso»: poca acqua potabile, cibo guasto, calura e malori nei mari equatoriali. E quando dopo più di un mese approdavano in qualche porto dell'Australia, se non c'erano parenti o amici che li prendevano a carico garantendo alle autorità vitto e alloggio, venivano messi in campi di raccolta e di attesa da dove uscivano per lavori occasionali, duri sempre e sovente mal pagati. A tanti nostri conterranei è carissimo il ricordo di una donna emigrata laggiù negli Anni 30 e che a ogni arrivo di nave italiana era sulla banchina a raccogliere come una chioccia tutti i compaesani per portarseli a casa, nutrirli, alloggiarli, trovar loro un lavoro senza nulla chiedere: solo per vedere i visi dei nostri fratelli e sentirli parlare dei nostri luoghi e delle nostre famiglie. Con il passare degli anni, con tanto lavoro, buona volontà e iniziativa, quasi tutti trovarono spazio e stima in quella società in un primo tempo diffidente e chiusa. Ora i figli vanno nelle università; posti di prestigio sono occupati da loro anche nella pubblica amministrazione e nello Stato; ci sono allevatori, imprenditori edili, direttori di fabbriche, agricoltori, albergatori. La nostra lingua non è più negletta e beffeggiata ma viene studiata anche nelle scuole e tanti originari inglesi cercano d'impararla. Un nostro amico, dopo aver tagliato canna da zucchero, fatto lo sguattero, il cantante, il giardiniere, ha ora una bella oreficeria e ha sposato la figlia di un compaesano emigrato laggiù nel 1919. Qualche anno fa e' ritornato al paese per una festa con i suoi e ha voluto che lo accompagnassi per i boschi dove da ragazzi si andava a lavorare. Lo stupi' la ricrescita del bosco ma piu' ancora rimase sorpreso nel vedere i sentieri non più battuti dal nostro transitare con la legna a strascico: «Perché è ricresciuta così l'erba? Non si va piu' a far legna su per cime?». Hanno sempre tanta nostalgia della terra natale e a Melbourne hanno fondato un club con il ristorante, il campo di golf, la sala per ballare dove si ritrovano ogni sabato e ogni domenica. Hanno anche un coro che hanno denominato Gruppo Corale Adriatico. Cantano le matte canzoni triestine, le malinconiche friulane, le patetiche venete, le maliziose romagnole. In primavera era venuto a casa un corista di questo gruppo; desideravano che facessi una breve presentazione per un disco che avevano in programma di incidere e mi fece ascoltare il nastro: erano canzoni che quasi più nessuno da noi ora canta e, tra l'altro, scrissi per loro «...Va l'alpin, o Addio mia bella addio, o Quel mazzolin di fiori, che voi mi avete fatto sentire, sono ormai dimenticate dai più. Così ancora una volta si rende palese il fenomeno che i conterranei emigrati lontano conservano gelosamente dialetto, usanze, e quindi anche le canzoni, che dalla patria hanno portato come un bene prezioso». 

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