Il numero 377 del “La talpa giovedì”, l’inserto monografico che per molte settimane accompagnò “il manifesto” nello scorso millennio, uscì il 20 dicembre 1990, quando si avvicinava il congresso con il quale il Pci si sarebbe suicidato. Ha come titolo La mano su di sé ed è dedicato proprio al suicidio. Spicca tra i testi che lo compongono questa puntualizzazione sul suicidio e sulla sua filosofia nell’antichità classica di Mario Vegetti.(S.L.L.)
Il suicidio non è mai stato una virtù greca. Si suicidano due o tre eroi tragici, quando non possono reggere la sventura che li ha colpiti, o quando si tratta di salvare quella città. Ma nella tragedia si suicidano per lo più le donne, impiccandosi, da Antigone a Fedra, a Giocasta, quando hanno perduta la reputazione, o con la spada , come Deianira o Euridice, quando hanno perduto lo sposo ed il figlio (da altre, come Clitennestra ed Elena, per le stesse ragioni ci si attende invano il suicidio, ma si tratta di donne infedeli al loro ruolo di genere).
Si suicidano anche i filosofi, di solito per stanchezza della vita; ma la loro preferita modalità di suicidio, che secondo Diogene Laerzio, è quella per inedia, lascia filtrare un sospetto. Mai del tutto liberatisi del ricordo dei loro predecessori sciamani, non tenteranno costoro, sospendendo l’alimentazione o la respirazione, di rendersi immortali, di tentare la via di un’esistenza extracorporea?
Ma per un uomo – tanto per un eroe che per un cittadino - la via del suicidio. La “bella morte” (se non si attende la fine naturale) è quella sul campo di battaglia, al servizio della comunità – i compagni, la stirpe, la città – che si trasforma, attraverso le memoria e la fama, in una sorta di immortalità collettiva (e dunque diversa da quella individuale cui pensano i filosofi).
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E’ probabilmente per questo che Platone considera il suicidio un delitto orribile. Esso infrange il triplice legame che struttura il soggetto: con se stesso, in primo luogo, poi con la comunità sociale cui appartiene e cui deve il proprio servizio, infine con il destino, sia questo prodotto di una volontà divina o di una legge che governa il mondo. “Chi uccide la persona più familiare di tutti e, come si dice, la più cara, quale destino deve subire. Intendo dire il suicida, colui che con la violenza si priva della sorte stabilita con lui dal suo destino, che si uccide senza che la giustizia della città glielo abbia imposto … colui che solo per viltà o per l’ignavia del codardo si impone una pena ingiusta”. Costui andrà sepolto in “zone di confine incolte e senza nome, e non ci siano né stele né nome a indicare la sua sepoltura” (Leggi,IX,873,c-d). L’anonimia sociale deve dunque marcare chi ha scelto di cancellare il legame costitutivo della soggettività con sé e con gli altri.
Poiché padrone di sé è solo chi è libero, tutto questo ha probabilmente qualcosa a che vedere con l’idea greca di libertà. Per i greci (almeno di età classica), libero è intuitivamente immediatamente chi non è schiavo, e chi appartiene (a differenza delle donne, che perciò non sono libere) a una comunità capace di deliberazioni collettive come la polis. Proprio per questo, libertà e padronanza di sé non sono una faccenda individuale ma collettiva; si è “io” solo dentro a un “noi” e sottrarsi a questa comunità è un atto di viltà che assomiglia alla fuga dal campo di battaglia. Questo dev’essere punito, come dice Platone, con la cancellazione da quella memoria collettiva in cui soltanto l’io può assumere una durata permanente.
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Per i romani (o almeno per alcuni di loro), il suicidio è stata una virtù. Conta qui un certo mutamento filosofico e morale nella concezione del soggetto, che non è più tale in quanto appartiene immediatamente a un noi, ma che trova le sue ragioni d’identità nell’interiorità della coscienza, in un riconoscimento di sé che non passa più attraverso la comunità, le sue attese e la sua memoria.
Ma questo mutamento si radica e si diffonde nella condizione storica di un preciso strato sociale. Si tratta della tenace, secolare, intransigente resistenza dell’oligarchia senatoria all’assoggettamento del potere imperiale, che molti dei suoi esponenti non possono accettare, benché esso ne tuteli in sostanza gli interessi di classe. Mito ideologico di questa oligarchia è il suicidio di Catone, che rifiuta così di sottomettersi a Cesare; e il suicidio resterà, di qui in po, per gli aristocratici di Roma, il modo di continuare ad affermare la loro supremazia sociale attraverso un gesto che ne segnala la dignità interiore, la superiorità morale di fronte a un potere “volgare” che pretende di cancellarne la libertà (che era, s’intende, libertà di potere e di dominio). Contro Nerone si suicidano così nobili senatori come Trasea Peto, convinto di dare al popolo una lezione di come “un vero uomo va incontro alla morte”, o come lo stesso Seneca. Catone si era aperto con una sola mano la via d’uscita dalla servitù alla libertà; il suicidio diventa anche per Seneca il modo esemplare che consente di rendersi imprendibile a qualsiasi dominio esterno: “Chiedi quale sia la strada della libertà? Una qualunque vena del tuo corpo”(De ira, 3, 14-15).
Se non si è depositari di un diritto al potere maturato da intere generazioni di avi aristocratici, e sostanziato da immense ricchezze come quelle di Seneca, non credo che la via al suicidio dei senatori stoicheggianti romani sia praticabile senza il sospetto del ridicolo.
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Una volta che si sia perduto il senso e il valore dell’appartenenza a una comunità, capace di costituire lo stesso soggetto e la sua permanenza, risultano forse più pertinenti i suggerimenti di un filosofo ex schiavo come Epitteto. Costui pensava al suicidio come il momento di una rappresentazione indirizzata a qualcuno, simile alla scelta del momento giusto per uscire di scena proprio dei bravi attori; o, meglio ancora, come il gesto del bambino che dice “non voglio più giocare”, e se ne va (1,22.4). In tutto questo niente di esemplare e di sublime: Ma certo l’esercizio sensato di un diritto da parte di chi è solo, come un attore o un bambino: di chi non ha più motivo di sentirsi appartenente alla comunità politica e morale, come l’uomo platonico, o a una classe con la vocazione storica al potere, come l’aristocrazia senatoria, e neppure aun qualsiasi disegno del destino.
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