18.11.11

La Catania di Vitaliano Brancati (di Nello Ajello)

Catania, Sant'Agata, 1905
Nel trentennale della morte di Vitaliano Brancati, il 24 ottobre 1984, la repubblica dedicava allo scrittore siciliano il paginone centrale e il doppio articolo (di Alberto Asor Rosa e di Nello Ajello). "Posto" qui con un titolo diverso una grande parte di quello firmato da Ajello (Una certa idea della Sicilia), che connette i libri di Brancati al fascino borghese di Catania nel primissimo Novecento. (S.L:L.)
Accanto al Brancati inventore di trame narrative c' è il Brancati civilmente impegnato, progenitore (sulle colonne del “Tempo illustrato”, nella seconda metà degli anni Quaranta) degli attuali politologi, ma senza la noia di cui essi, per lo più, grondano. C'è Brancati satirico, autore di godibili e sferzanti satire della retorica "muscolare" del fascismo. C'è Brancati polemista, quello del pamphlet Ritorno alla censura; Brancati viaggiatore: come non ricordare il resoconto, pubblicato originariamente nel “Mondo” di Mario Pannunzio, di una sua esperienza di turista "di costume" a Londra? E c' è infine il Brancati che ci sembra davvero memorabile: quello "siciliano". Fu Moravia a notarlo per primo: nel contrasto fra la sua cultura di intellettuale à la page e la sua nostalgia di provinciale, c'è tutto Vitaliano Brancati; ma la sua vena più autentica è di tipo nostalgico e non razionale, provinciale e non "europeo". Ma com' è questa Sicilia di Brancati? E' in gran parte un "paesaggio dell' anima", qualcosa che probabilmente non esisté mai se non nella sua immaginazione, come quei panorami effigiati da certi bizzarri incisori del Settecento, che con nobile arbitrio si figuravano un vulcano fumante a Capri o arricchivano Napoli di prospettive architettoniche maestose e inesistenti.
Così, nella piccola Sicilia ottocentesca descritta dall' autore del Bell'Antonio, un meridionalista impazzirebbe nel rintracciare le coordinate storico-ambientali e un antropologo vedrebbe infranti i suoi parametri conoscitivi. Di questi sforzi il primo a sorridere sarebbe lo stesso Brancati, che non era tenero verso i critici troppo zelanti o pedanti, malati, come diceva, di "profondismo". Di fatto, quando entra in contatto con la sua "patria", egli diventa un cronista d'una qualità speciale, uno storico dell'impossibile.
E nella letteratura dei suoi conterranei, almeno di quelli più moderni, la Sicilia di Brancati non trova alcun riscontro. Essa non è, per esempio, un mero pretesto come nel siracusano Vittorini che, presentando un suo libro, dichiarò polemicamente di averne ambientato la storia nella sua isola "solo perché il nome Sicilia mi suona meglio del nome Persia o Venezuela". E meno che mai somiglia a quella del racalmutese Sciascia, che anche nelle trame più fantasiose conserva il gusto del documento e una sua lucidità voltairiana.
I "documenti" cui Brancati si ispira sono invece puri stati d'animo, anzi variazioni su un unico stato d'animo: "la difesa strenua non solo dei costumi del borghese, ma anche delle sue abitudini ed usanze, e dei suoi vestiti, dei suoi baffi, dei suoi bastoni, ecc.". Questa formula, enunciata dallo scrittore come antidoto alla retorica vitalistica del fascismo (della quale anche lui fu vittima in gioventù), si trasferisce automaticamente in un paesaggio, un'epoca, una città. Diventa, in breve, la sua Catania dolcemente sprofondata nella Belle Epoque. Poco importa che quel mondo degli albori del secolo - "la Sicile aux anciens parapets" - Brancati, nato nel 1906, abbia potuto soltanto sfiorarlo e che quindi la sua memoria, a voler essere pignoli, non possa conservarne che pallide tracce. Egli mente, infatti, e confessa amabilmente la bugia: "Catania, oh Catania era bella al principio del Novecento! C' era un odore di cipria per le strade, delicato come i visetti delle donne che lo portavano! Visi timidi, pazienti, deboli, veramente di donne. Si aggiungeva un gradevole odore di finimenti di cuoio per il gran numero di carrozze padronali che scorrevano da un capo all' altro del corso. Io, in verità, non li ricordo, perché allora non vivevo a Catania né altrove, e battevo in felicità quegli uomini felici, non essendo ancora nato. Ma i ricordi degli altri mi fanno trasalire ugualmente, e la nostalgia di cose che non ho viste e che mi sono tanto care, giunge al punto di guastarmi l' umore...".
In questa Catania ridente e vecchiotta come una "foto Alinari", il giovane protagonista del racconto Singolare avventura di Francesco Maria arriva dalla natia Pachino, inseguendo fantasmi dannunziani e sognando donne fascinose. Ma il personaggio (uno dei suoi più riusciti) è per Brancati quasi un pretesto per raccontare quella sua fiaba siciliana, animata da volti e luoghi targati "1900". Una volta egli lo ha proclamato a chiare lettere, parlando di se stesso: "Lo stravagante autore non ha alcuna stima dei suoi contemporanei, e i posteri li odia per la fortuna che avranno di non vivere nella sua epoca". Scartati il presente e il futuro, non gli resta che "quel" passato da idolatrare: "Ormai sono al punto che non soltanto ammiro la musica, la poesia, la pittura, la scultura di quel tempo", ha scritto nei Piaceri (1943), "ma anche le cose minime, il modo in cui aprivano la finestra al mattino, e salutavano gli amici giù in strada, e si agganciavano il quarto bottone della giacca...". "E come si salutavano!", incalza nella Singolare avventura. "A testa bassa parevano sprofondare l'uno nell' altro e soavemente mescersi in un'unica persona...".
Una narrativa basata sulla memoria - neanche propria, ma altrui - è piena di pericoli, non fosse altro quello della monotonia; ma la tenacia con cui Brancati coltiva questo suo genere letterario sfiora il surreale: "Io ho l'abitudine", dichiara, "di contare ogni sera i miei ricordi come l'avaro conta i suoi marenghi, e la notte di svegliarmi per paura che me ne manchi uno". Quanto ai propri contemporanei - i siciliani viventi verso la metà del secolo XX - lo scrittore catanese non si limita a disistimarli. Li prende anche in giro.
Il Giovanni Percolla del Don Giovanni in Sicilia è il perfetto contrario dell'"eroe positivo" caro a certa narrativa di timbro sia fascista che "realsocialista". E' un anti-eroe siculo pigro e donchisciottesco, "il serio, il buono, il rispettabile Giovanni", che "non aveva mai visto le ore del pomeriggio perché le aveva dormite", e di cui nessuno avrebbe immaginato che la testa fosse, come di fatto era, "piena della parola donna" (ma poi si scopre, suprema ironia, che "Giovanni Percolla a trentasei anni non aveva baciato una signorina per bene").
Nel Bell’Antonio il dramma è ben più profondo. I legittimi abitanti di quella sua Catania - o Caloria, o Natàca, nomignoli che usava dare a "una città di cui facilmente indovinate il nome" - non sono questi. Sono i loro antenati, i padri, i nonni. Non esistono più, in natura. Non ne resta che qualche ritratto nei salotti e un antico sentore di sigaro nei comò. Ma a Brancati ciò basta per allinearli nella sua galleria.
Sono - per chi volesse rivisitarli - l'"avvocato grande" della famiglia Occhipinti nel bel racconto Rumori; quel "ricco Cavalier de Filippi", esponente della haute letteraria catanese, "autore di Canzonelle spiritose, noto per aver offerto inutilmente a un grande giornale milanese diecimila lire, dietro la pubblicazione, in terza pagina, di una fotografia con la scritta: de Filippi, grande poeta vernacolo"; il padre di Francesco Maria che, alla fine della Singolare avventura di quest'ultimo, fa la sua apparizione per "pestare come l' uva" il protagonista e indurlo a sanare una "questione d'onore". Anche Alfio Magnano, padre del bell'Antonio, ha la sua questione d'onore da risolvere, il fallimento di suo figlio come "maschio": ma per salvare il buon nome della famiglia non può far altro, alla sua età, che suicidarsi eroicamente fra le braccia di una prostituta.
Brancati, moralista insaziabile e a suo modo engagè (e in ciò diverso da un altro idolatra delle atmosfere primo Novecento, Leo Longanesi) ha perfino l' aria di scusarsi per l'irrefrenabile predilezione che lo lega al suo vecchio mondo borghese: "Voterò per la terra ai contadini e per le fabbriche agli operai", scrive, quasi a titolo di testamento, in Paolo il caldo, "ma questo non vieterà che i miei ricordi siano quelli che sono, e che tra le cose che mi hanno fatto tremare il cuore possa trovarsi un braccialetto tintinnante sul polso della figlia di un terriero. Voterò per gli altri, ma conserverò tutti i diritti sulle mie sensazioni, i miei sentimenti, i miei ricordi e le mie immaginazioni".
C' è un solo siciliano "moderno", fra i protagonisti di Brancati, che sia davvero simpatico al suo creatore: ed è il Piscitello del Vecchio con gli stivali, prototipo dell' italiano piccolo piccolo travolto dal fascismo. Ma è anche lui, a suo modo, una stampa dell' Ottocento. "In giacca nera, pantaloni a righe, colletto duro e cappello a cencio col nastro rattoppato", "probo, poco rumoroso", sofferente di "sbadigliarella nervosa", è antieroico fino all' eroismo, mite fino al martirio. Ma pure in lui sopravvivono certe categorie mentali della vecchia borghesia isolana. Quando il podestà fascista gli spiegò di averlo sottratto all'epurazione decisa dal regime ai danni dei cittadini politicamente tiepidi ma di averlo fatto soltanto "per riguardo a sua moglie che è sarta della mia signora", il timido "vecchio con gli stivali" ebbe un sussulto d' orgoglio. "Perché dice sarta? - supplicò Piscitello, in mezzo a sbadigli penosi - Non le permetterei di fare la sarta. Qualche volta aiuta le amiche!...".
In questo modo Brancati sembra ammettere anche questo pover' uomo nel suo paesaggio prediletto. Il quale, più che la Sicilia, è un' idea di Sicilia. Certe descrizioni della città etnea somigliano a quadri metafisici: "Era una notte di luna, come da tempo Natàca non ne vedeva", si legge ne Gli anni perduti. "In queste notti il cielo, le mura degli edifici, l' asfalto delle strade, tutto è di un' eleganza che incute rispetto e timidezza. L' universo sembra destinato ad essere ben più di lusso che non siano gli uomini. Si cammina adagio, come vermi fangosi in un piatto d' argento...". Ci si può chiedere che impressione riporterebbe Brancati nel vedere la Catania di oggi, ancora bella ed elegante per chi voglia esplorarne certe pieghe segrete, ma trasformata dal traffico, dal cemento e dall' ambizione di essere metropoli. Forse, farebbe più fatica nel "contare" e "ricontare" i suoi ricordi.

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