9.11.11

La "Prosa del Transiberiano" e il viaggio di Blaise Cendrars (S.L.L.)

Nel mio libretto Il secolo morente, ovvero la fine delle lezioni (Giada, Perugia, 2000) il secondo capitolo, dal titolo Nostra patria è il mondo intero, è dedicato all’analisi della Prosa del Transiberiano, il celebre poemetto di Blaise Cendrars, studiato nei suoi valori espressivi ed inserito nell’orizzonte secolare della globalizzazione capitalistica. Ne riprendo qui la parte iniziale. In un altro “post”  ( http://salvatoreloleggio.blogspot.com/2011/11/prosa-del-transiberiano-e-della-piccola.html ) trova posto una parte della mia traduzione del poemetto, anch’essa contenuta nel volume pubblicato nel 2000. (S.L.L.)
1. Uno dei testi cult dell’avanguardia francese è la Prosa del Transiberiano e della piccola Jehanne di Francia di Blaise Cendrars, rievocazione in prima persona di un viaggio che la storia considera improbabile e la leggenda pretende reale.
L’attacco, come nella Commedia dantesca, indica l’età del protagonista e il luogo di partenza. Dà l’avvio un aiutante numinoso, il mercante di bigiotteria che gli paga il biglietto e gli regala un vestito nuovo e una pistola nichelata. C’è anche l’inferno della guerra e perfino una Beatrice in onore della quale è scritto il poema, “una bambina, bionda, ridente e triste”, raccolta in un bordello. Nei suoi occhi “tremola un dolce giglio, d’argento, il fiore del poeta”. Non è una prostituta, ma una “prostituita”, una vittima. Da Baudelaire in poi è regola che il poeta, perduta l’aureola, cerchi la musa nei bassifondi. Cendrars la designa con due diverse grafie: quella abituale, Jeanne, e una arcaica, Jehanne, che la nobilita collegandola alla più grande Giovanna di Francia.
Molti elementi fanno pensare al Viaggio che perfeziona I fiori del male: il richiamo all’infanzia, all’adolescenza, agl’insaziabili appetiti che le affollano, le immagini rubate al mondo dei fanciulli, palloni, trottole e consimili balocchi, il “partire per partire”. Dal Rimbaud del Battello ebbro deriva l’immaginazione esuberante, fastosa ed esaltata. Il marchingegno che impianta la ricerca avanguardistica di Cendrars era dunque ben conosciuto già ai suoi tempi: nei percorsi della memoria s’incardina un movimento nello spazio che si estende con le peregrinazioni della fantasia; è un viaggio nel viaggio nel viaggio. Il beat americano ha arricchito lo schema, aggiungendovi tra l’altro il trip degli allucinogeni.
Eppure, nonostante la presenza di tanta letteratura, il Transiberiano conserva un sapore di giovinezza. In Francia i ragazzi lo trovano nelle antologie, ma neanche la scuola riesce ad attutire lo shock che provoca: alcuni ne mandano a mente qualche passo, altri se ne servono come viatico per i loro vagabondaggi o per i loro sogni. In Italia è poco conosciuto, ma tutte le volte che ne ho sperimentato la lettura in ore di supplenza, ho notato una reazione diffusa di spiazzamento e d’interesse.
Dipende probabilmente dal ritmo, che si avverte perfino nelle traduzioni recitate senza professionalità, e comunica allegria anche quando le parole significano devastazione e morte. Le accelerazioni, le frenate, i rallentamenti, gli scarti che la scatola nera del Transiberiano registra (“I demoni sono scatenati/ Ferraglie/ È tutto un accordo sbagliato/ Il brun-run-run delle ruote/ Urti/ Rinculi”), anticipano le strumentazioni del secolo nuovo, dal jazz al rock ed oltre (“Il clarinetto, il trombone, un flauto acido e un tamburo rotto”). Non è una deriva, la sensibilità non è sregolata come pretendeva Rimbaud; si procede per sobbalzi (“Io m’abbandono / Ai soprassalti della mia memoria...”), ma le sbandate sono controllate e non ci sono deragliamenti: “Il treno fa un salto mortale e ricade su tutte le sue ruote/… Il treno ricade su tutte le sue ruote”.

2. La sonorità della Prosa, non a caso “dedicata ai musicisti”, è basata sugli scambi e gl’incroci di ritmi e di toni. Si accompagna magnificamente alla musica moderna come ottimamente fu associata alla pittura cubista.
Della prima, leggendaria, edizione (1913) furono diffuse meno di cento copie. L’oggetto ha forma di depliant a fisarmonica. Aperto è lungo quasi due metri e comunica immediatamente l’impressione dell’intero testo, della mappa della ferrovia transiberiana e delle figurazioni astratte di Sonia Delaunay. Gli antiquari lo stimano quasi un miliardo di lire. Apollinaire lo riteneva il prototipo della simultaneité letteraria: i contrasti di colore abituavano a leggere con uno sguardo l’insieme del poema, come un direttore d’orchestra quando legge d’un colpo le note sovrapposte di uno spartito o come in un manifesto murale si osservano d’un colpo solo forme, colori e scrittura.
In realtà nel Transiberiano la simultaneità si conserva in tutte le edizioni successive, illustrate e no, perché non è soltanto visiva, legata alla veste tipografica, ma è la tecnica che costruisce l’edificio delle parole e tesse la rete dei significati. Per il suo autore “simultaneo” è un termine di mestiere, come cemento armato in edilizia o sublimato in medicina, e la simultaneità è lo strumento per mezzo del quale gli artisti manipolano una materia prima che è il mondo intero.
L’uso massiccio di questa tecnica in tutte le arti trova la sua ragione in una percezione del tempo e dello spazio assai diversi che nel passato. A Parigi, nel 1912, la Conferenza del Tempo adotta segnali orario precisi ed uniformi da trasmettere ovunque con il radiotelegrafo. Bisogna evitare incertezze sul momento esatto di decorrenza di una polizza, di scadenza di una cambiale, di entrata in vigore di una legge. In fabbrica, per organizzare il lavoro, si usano i cronometri. L’industria, la finanza, gli stati pretendono finalmente una regolazione rigorosa dei tempi. Ma la teoria della relatività li smentisce (“Ogni mattina si mettono gli orologi in orario/ Il treno è in anticipo e il sole ritarda”).
Anche la riflessione filosofica intacca la solidità del tempo meccanico convenzionale, ragiona di una facoltà interiore, che, di volta in volta, prolunga o accorcia, dilata o concentra, separa o accorpa sensazioni ed eventi, converte le misure del tempo in distanze spaziali. Cendrars può dichiarare: “Avevo appena sedici anni e non mi ricordavo più della mia infanzia/ Ero lontano dal luogo di nascita, a 16.000 leghe di distanza”. Gli anni sono diventati migliaia di leghe, ma quell’infanzia remota e rimossa può riapparire all’improvviso: “ecco la mia culla”.
Con il concetto di tempo muta il concetto di spazio. Senza punti di riferimento, tutto appare in subbuglio: dal finestrino di un treno che viaggia a piena velocità non si distinguono paesaggi, si percepiscono movimenti. “L’universo mi sommerge”: il suo debordare non può essere padroneggiato dal soggetto.
Mentre il mondo “gira perdutamente all’incontrario”, i treni, i velivoli, le automobili, il telegrafo senza fili, riducono o annullano le distanze fisiche, ma i percorsi mentali, le differenze culturali ne creano di nuove, incommensurabili: “Il mondo moderno/ La velocità non può farci nulla/ …I lontani sono davvero troppo lontano”.

1 commento:

Anonimo ha detto...

Grande Blaise Cendrars. Inpossibile non arrendesi alla sua letteratura.

JORDI BAIGES

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