9.4.13

Le autobiografie di Chaplin. "Solo, nelle luci della ribalta"

Già famoso, Charlie Chaplin scrisse (o si fece scrivere) nel 1916 una sorta di autobiografia (Charlie Chaplin's Own Story) che poi dichiarò apocrifa, facendone ritirare dal commercio tutte le copie. Nel 1985 uno studioso americano la ripubblicò, mettendola a confronto con altri scritti autobiografici del grande Charlot, e notando alcune evidenti discrepanze tra le diverse versioni della leggenda.
Nel 1988, “il manifesto”, pubblicò un commento di Marco Giusti su tutta la vicenda e riprese dal volume il brano che segue, presentandolo, senza se e senza ma, come un “inedito di Chaplin”. In esso si raccontano i primi applausi e i primi guadagni dell’attore ancora bambino, in un contesto di miseria e di violenza. Al testo chapliniano segue, a mo’ di appendice, uno stralcio dall’articolo di Giusti.  (S.L.L.)  
Charlie Chaplin in una caricatura di David Levine (1972)
Feci qualche passo incerto fuori sul palcoscenico. Il luccicore delle luci mi abbagliò e incespicai. Il palcoscenico sembrava un grande posto vuoto e mi sentivo un po' solo. Non sapevo proprio cosa fare, ma mio padre mi aveva detto di uscire fuori e cantare Jack Jones, e non osavo tornare indietro fin quando non l'avevo fatto.
Dietro le luci della ribalta ci fu un gran ruggito che mi confuse ancora di più, finché non vidi della gente che rideva e applaudiva. Allora mi ricordai di quando cantavo sul tavolo con le persone tutte intorno e il rumore e la luce, vidi che era la stessa cosa. Aprii la bocca e cantai Jack Jones con tutta la forza.
Era una vecchia canzone da venditori ambulanti che mi aveva insegnato mio padre. Cantai il primo verso e cominciai il secondo affrettandomi a finirla. Non avevo paura della folla ma il palcoscenico diventava sempre più grande e io diventavo sempre più piccolo, di minuto in minuto, e avrei voluto stare con mia madre. Ci fu un gran rumore che interruppe la mia canzone, e qualcosa mi colpì sulla guancia. Smisi di cantare con la bocca ancora aperta su una nota, e qualcos'altro colpi il pavimento vicino a miei piedi e poi cadde una pioggia di cose, e una mi colpì al braccio. Il pubblico me le stava lanciando contro. Indietreggiai un po' spaventato, continuai a cantare come potevo, la mia faccia tremava e avevo un groppo in gola. Sapevo di dover finire la canzone perché mio padre me l'aveva detto. Mi vennero su dei lacrimoni e chinai la testa e me la strofinai con le nocche delle dita, e guardai per terra sul palcoscenico. Era quasi del tutto coperto di penny e scellini: soldi. Mi stavano buttando dei soldi.
«Hei, aspettate, aspettate! — gridai, e mi misi in ginocchio per raccoglierli — sono soldi, aspettate un minuto».
Me ne riempii tutte e due le mani, e ce n'era ancora. Girai intorno, me li infilavo in tasca e gridai al pubblico : «Aspettate che finisca e canto ancora».
Fu un gran successo. La gente rideva, gridava e saliva sulle sedie per buttarmi ancora dei soldi. Continuavano a cadermi soldi attorno, a rotolare sul palcoscenico mentre li rincorrevo gridando di gioia. Mi ero riempito tutte le tasche e ne avevo messi nel cappello. Allora mi rizzai e cantai Jack Jones due volte, e l'avrei cantata ancora ma mio padre salì in scena e mi portò via.
Avevo raccolto quasi tre sterline in monete da sei pence, da uno scellino, e persino da mezza corona. Mi misi a sedere su una scatola e cominciai a giocarci mentre mio padre faceva la sua parte a teatro. Non sapevo contarli, ma sapevo che erano soldi e mi sentivo ricco. Poi tornammo a casa. Mio padre mi piazzò sul letto affianco a mia madre e io le misi i soldi in grembo ridendo. Anche lei rise. Mio padre li prese e ci fece una gran festa e mi fece anche bere della birra forte. Ricordo come ci ammucchiammo su Sidney quella notte.
Mia madre riuscì a tornare al lavoro il giorno dopo, e Sidney e io fummo di nuovo lasciati in casa. Ci fu una lite prima che lei uscisse. Mio padre bestemmiò e mia madre piangeva e batteva i piedi. Lei diceva : «No, no, è ancora troppo piccolo». E io sapevo che stavano parlando di me e mi rannicchiai in un angolo e rimasi fermo.
Dopo quella serata diventammo sempre più poveri. Non ci furono più feste la sera. Mia madre tornava a casa sola, e quando mi svegliava rimboccandomi le coperte, mi sentivo così triste che mi sembrava che il cuore mi si spezzasse, la sua faccia non scintillava più. Sidney e io giocavamo in casa di giorno, e ci tenevamo lontani da mio padre. Lui aveva la faccia rossa quando ritornava, e il suo alito era caldo e forte di whisky. Si gettava sul letto senza una parola a mia madre e si addormentava con la bocca aperta. Allora Sidney e io uscivamo zitti zitti e giocavamo sulle scale.

Da Charlie Chaplin's Own Story, curato da Harry M. Gelgud per la Indiana University Press
Charlie Chaplin in Monsieur Verdoux
Chaplin, una vita immaginaria per proteggere la leggenda di Charlot (Marco Giusti)
I comici sono sempre stati bugiardi, o di memoria corta. Molto più di qualsiasi altro attore. Ma ai comici, da sempre, si può perdonare tutto. Anche il fatto di non saper scrivere. Tutte o quasi le loro autobiografie sono finte e raramente si osa scrivere, anche in piccolo, l’autore-esecutore degli scritti del comico. Anche l'articoletto pubblicato, ad esempio, dalla fanzine storica Film Fun, se proposto come un ricordo di Fatty o di Larry Semon, doveva essere siglato con un «byhimself».
Quando si arriva all'autobiografia, poi, per il comico non c'è scampo. Fin dal titolo si deve evidenziare che Chaplin ha scritto «proprio la sua storia» (Charlie Chaplin's Own Story) o la «sua autobiografia» (My Autobiography). Perché il comico arrivato deve storicizzarsi, definire una volta per sempre i suoi contorni. Anche se poi ciò che definisce l'attore comico è proprio la sua fondamentale mancanza di storia, il definirsi su ogni singola inquadratura come personaggio definito per sempre, senza passato o futuro. Per il comico gli strumenti veramente importanti sono i costumi, il cappello, i baffi, un certo taglio di capelli, le scarpe, mai la sua storia. Eppure, per una civetteria massima da attori, pochi come i comici sono vanitosi del proprio passato. Sono sempre lì a correggere, a rivedere quello che hanno fatto, ricordano esattamente i loro percorsi. Probabilmente perché per i comici provenienti dal vaudeville, cioè dal punto più basso dello spettacolo agli inizi del secolo, lo storicizzarsi con autobiografie anche fasulle era un arrivare in un paradiso che per loro sembrava escluso.
Non si spiegherebbe altrimenti il perché, nel 1916, un comico già famoso ma non ancora il mito che sarebbe stato dopo qualche anno, come Chaplin, decidesse di scrivere o di farsi scrivere la propria autobiografia. Non solo, ma ritenesse poi. per qualche motivo che non ci è ancora del tutto chiaro, che fosse meglio sbugiardarla come apocrifa e togliere tutte le copie dal mercato, considerarla inesistente.
Proprio la pubblicazione nel 1985, di questa famigerata Charlie Chaplin's Own Story, grazie allo studioso chapliniano Harry M. Geguld e alla Indiana University Press, ci permette invece di ricostruire esattamente le intenzioni del comico rispetto alla sua parte di storia che voleva si raccontasse. Perché Geguld mette a confronto questa autobiografia con le altre, la fondamentale e anch'essa falsissima My Autobiography e gli altri scritti precedenti. Si scopre così, di volta in volta, di anno in anno cosa Chaplin ritenesse da oscurare del suo passato e cosa invece potesse essere reso pubblico.
Non ci interessa tanto il tipo di scrittura, che pure è un curioso melange di Dickens, di ricordi chapliniani precedenti e di altre autobiografie, quanto il definirsi storicamente del comico, il prendere possesso del proprio passato. Sotto questa angolazione tutte le sue autobiografie, anche se non veramente scritte da lui, diventano più reali che se le avesse fatte di persona, perché è in qualche modo l'operazione di progetto generale che conta.

“il manifesto”, 28 febbraio 1988

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