29.4.13

Il sistema della violenza e la politica negata (di Edoarda Masi)

Edoarda Masi
Massacri di popoli al limite del genocidio sono stati perpetrati nell'ultimo cinquantennio e sono tuttora in corso. Trenta milioni di persone son fatte morire di fame ogni anno. Per mancanza di medicinali interi popoli muoiono di malattie peraltro curabili, in omaggio al principio di remunerazione delle grandi imprese farmaceutiche. L'Africa è crocifissa, per malattie e guerre intestine indotte, con milioni di morti. Per non parlare dell'America Latina, l'Asia è aggredita in molte sue regioni. E infine la guerra preventiva e permanente - condizione assoluta priva di motivazioni. Se la violenza omicida è alle origini delle nazioni e perfino della vicenda umana (tanto da ritrovarsi nel profondo di ciascuno di noi), quel che fa la differenza oggi è la scala: la quantità si trasforma in qualità. Minacciata è la sopravvivenza stessa della nostra specie. E non solo. La distruzione in corso, in Italia, della convivenza civile e dello stato di diritto, delle istituzioni giuridiche, sociali e culturali - dal sistema giudiziario a quello del welfare alla scuola -, dei principi universali della nostra civiltà e della nostra cultura, delle conquiste recenti dei cittadini-lavoratori, e perfino del patrimonio paesaggistico e artistico, è solo un aspetto provinciale della grande catastrofe in atto. Alla quale si va cercando riparo, negli Stati uniti, col mito della «sicurezza»; e con la difesa a oltranza del «tenore di vita». Mentre nel «piccolo angolo del mondo» che è l'Europa ci si crogiola nell'illusione del «benessere», a difesa del quale si vorrebbe erigere un muro contro la realtà che preme dall'esterno.
Se la mozione a distruggere è insita in noi, altrettanto profonda è la mozione opposta, a resistere, a salvare e promuovere la vita - con più determinazione nella parte femminile della specie. Della catastrofe incombente solo una minoranza ha una visione chiara, ma una nozione forte se pure confusa occupa molte coscienze, ed è alla base del disagio diffuso. Perciò il movimento contro la violenza distruttrice e contro la sua forma più evidente che è la guerra si è esteso al mondo intero, e in misura mai conosciuta nel passato. In questo movimento spontaneo ed eterogeneo c'è una consapevolezza comune: è cosa impraticabile l'uso di armi materiali per opporsi alle forze della distruzione. Queste dispongono di armi di distruzione di massa di tale potenza, che si sottraggono a ogni sfida: il risultato dello scontro sarebbe solo la conferma dell'azione distruttrice, senza contropartita possibile.
Nelle condizioni presenti la risposta alle armi con le armi è suicida. I combattenti palestinesi suicidi sembrano indicarci col loro sacrificio questa porta chiusa. Davide può vincere Golia perché, nonostante la disparità della forza materiale, combattono entrambi con lo stesso tipo di armi, a misura d'uomo. A questo proposito esistono alcuni malintesi a proposito della guerra in Vietnam, combattuta quando gli Stati uniti disponevano già di armi tali, da poter distruggere totalmente l'avversario. Non le hanno usate fino in fondo perché l'opinione pubblica interna era ancora in grado di influenzare le dirigenze; delle quali infine lo scopo non era di distruggere il Vietnam ma di colonizzarlo. Dunque i vietnamiti ottennero allora una vittoria combattendo con i fucili e con i coltelli non grazie a queste armi ma grazie alla forza morale con cui mostrarono di saper resistere.
A questo punto, ogni discussione di principio sull'uso o meno della violenza mi sembra ozioso. Quanto ai vari orientamenti e comportamenti del passato, devono essere contestualizzati, qualunque giudizio univoco sarebbe dogmatico e moralistico. Della violenza del nostro tempo le cause sono come sempre molteplici, ma la forma specifica è quella di un cancro che ha cominciato a svilupparsi ai primi dell'Ottocento procedendo con ritmo sempre più accelerato, fino all'attuale crescita mostruosa e incontrollabile. Crescita inseparabile da quella del modo di produzione capitalistico e dal progressivo controllo della società da parte del capitale, in aree del mondo sempre più estese. La sola forza in grado di opporsi è stato il movimento socialista, che prospettava un ordine mondiale fondato sul controllo della produzione da parte dei produttori associati anziché sulla loro soggezione e sullo sfruttamento, sull'internazionalismo e quindi sulla pace anziché sul conflitto fra le nazioni, sulla fraternità e la solidarietà anziché sulla competizione. Milioni di donne e uomini hanno lottato oltre un secolo per questi fini, con risultati in parte e solo in parte vittoriosi. Contro quel cancro non è concepibile una vittoria parziale. Esso è penetrato all'interno dei meccanismi economici e di potere del socialismo e li ha inquinati. Gli esiti attuali sono il seguito, non il rovescio dell'inquinamento.
Per un ventennio in Cina sono stati messi in atto ripetutamente tentativi disperati per opporsi al cancro, con l'effetto tragico di aggravarne e accelerarne lo sviluppo. Un sentimento di impotenza occupa oggi per gran parte le coscienze di quanti vorrebbero opporsi alla catastrofe. Se il nemico alla base è il capitale, e se è vera più che mai l'alternativa sottolineata da Rosa Luxemburg «socialismo o barbarie», come trovare una nuova strada che ci sottragga alla barbarie? E come combattere efficacemente la guerra e la distruzione con le armi della pace, in un contesto dove la democrazia è vuota di contenuto e maschera della sopraffazione, dove opinione pubblica e «società civile» sono pie illusioni? Non è nella politica nei termini tradizionali che in questo momento va cercata, a mio giudizio, la risposta. La politica come arte del possibile e della mediazione è oggi sopraffatta dalla pura rappresentazione di interessi brutali, o ridotta a vana commedia. È invece possibile, da chi sia in grado di darlo, un contributo forte di pensiero, che parta dall'uscita dai luoghi comuni del pensiero unico. A questi appartengono le ideologie della «legalità» internazionale, dei diritti umani in territorio altrui (di cui il massimo portavoce è la Cia), della democrazia. Lo stesso mito della democrazia ateniese, enfatizzato dalla fine dell'Ottocento fino ai primi del Novecento (da Hölderlin a Simone Weil) era stato demistificato già dai grandi ateniesi come Tucidide; altrettanto deformante è, al rovescio, il mito del dispotismo come quintessenza del «male» opposto al «bene» democratico; giacché in realtà ogni sistema di governo si regge nella pratica e nella teoria sul consenso, che naturalmente si esprime in forme diverse. Oggi la democrazia è una parola vuota, tale percepita correttamente da tanta gente che, magari a torto, diserta le urne. La politica come mediazione fra potere e esigenze popolari potrà rinascere solo dopo che siano definiti i soggetti della contesa e degli eventuali compromessi, non può essere un punto di partenza né una gestione di professionisti.

“il manifesto”, 28 febbraio 2004

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