6.5.13

Gli innamorati nel porcile (di Cesare Cases)

Un testo vecchio, quasi antico, scritto più di trent’anni orsono da un grande maestro, germanista e comunista, Cesare Cases. Tecnicamente si tratta di una recensione, anzi di una “stroncatura”, giacché si svelano, anche brutalmente, le magagne dell’operazione culturale messa in atto da un sociologo, Francesco Alberoni, a quel tempo à la page anche a sinistra, oggi di simpatie berlusconiane. Il libro stroncato, Innamoramento e amore, fu all’epoca un grande successo, come nel suo ambito (specialistico piuttosto che divulgativo) lo era stato un libro precedente su movimenti e istituzioni.
La ragione storica è presto detta: molti tra gli incendiari del Sessantotto erano entrati nelle “stanze dei bottoni”, altri erano rientrati nell’ordine borghese, gli uni e gli altri erano divenuti pompieri. Alberoni forniva a tutti costoro un alibi, mandava un messaggio: “Così è sempre stato, così è e così sarà. I movimenti si istituzionalizzano, gli innamoramenti si placano in un più ordinato amore, possibilmente coniugale, il sistema non si abbatte e la vita non si cambia”. 
Cases, rivelando la banalità dell’operazione e il suo carattere conservatore, rilancia Marcuse, un pensatore che il Sessantotto aveva molto amato (molto “marcusiano” era per esempio – con molti altri - il mio amico e compagno Peppino Impastato). E ne rilancia uno degli aspetti più duraturi, meno legati alla contingenza e ai “movimenti” nati in risposta alla orribile guerra del Vietnam: la critica del capitalismo consumistico nell’Uomo a una dimensione e, più ancora, l’esaltazione di quello che fu chiamato “nuovo disordine amoroso”.
Al momento sembrano aver vinto loro, i fautori del ritorno all’ordine, ove il massimo di “disordine” consentito sono gli amorazzi prezzolati del “gran puttaniere”, oggi tornato sulla cresta dell’onda. Ma verrà il tempo in cui Marcuse, e Cases, e Brecht torneranno ad essere utili, il prima possibile io spero, perché a moltissimi puzza questo barbaro dominio, ma non si sa come uscirne. (S.L.L.) 
Cesare Cases

Quando qualche mese fa morì Marcuse,  ci fu un coro (cui non ricordo se si sia associato anche Alberoni) che proclamò che non aveva capito niente. A me pare che avesse capito almeno tre cose importanti:
1. che nel mondo della repressione l'eros - proprio la forma più sublimata, nel Werther o in Anna Karenina" — fa saltare la morale sociale e il principio dì realtà e quindi può attuarsi solo nella morte;
2. che questo non avviene più nella società attuale della "desublimazione controllata", in cui l'eros, anche il più sfrenato, lascia il tempo (e la società) che trova e non fa male a nessuno;
3. che la forza eversiva dell'eros aspira a una società non repressa in cui esso si riversi e si diffonda liberamente in tutti gli ambiti dell'esistenza: società che è l'esatto opposto di quella al numero due e che presuppone il rovesciamento del capitalismo.
Marcuse si sarà fatto delle illusioni sui modi di questa trasformazione, ma ai tre principi c'è poco da obiettare. Invece il libro di Francesco Alberoni, Innamoramento e Amore (Garzanti 1979), ci riporta all'epoca che Berta filava.
Alberoni aveva scritto un grosso volume, Movimento e Istituzione (Il Mulino, 1977), che erigeva a scienza l'arte di salvar capra e cavoli. I due « stati del sociale » indicati nel titolo sono altrettanto inevitabili: il movimento rivoluzionario erompe « in stato nascente », poi si cristallizza in istituzione finché verrà un altro movimento a scuoterla. La dottrina è molta, ma il succo è poco più di questo.
Già Movimento e Istituzione era fondato su categorie psicologiche, lo stato nascente era uno stato emozionale equiparato all'innamoramento.
In Innamoramento e Amore si studiano quindi le forme embrionali e individuali di quell’altro paio di concetti. Come accenna l'autore, questo libro è più divulgativo perché il tema interessa tutti: perciò la dottrina è poca, le pagine anche, ma queste poche, non contenendo il carico di erudizione di schemi concettuali dell'opera maggiore, sono orrendamente prolisse.
Più che divulgativo, Alberoni è addirittura lirico quando si effonde in descrizioni dell'innamoramento, che è per natura monogamo e che assume in lui toni arcaici, da Werther sublimato. «Allora noi viviamo per giorni e giorni continuamente abbracciati alla persona amata... In questi periodi tutta la nostra vita fisica e sensoriale si dilata, diventa più intensa; noi sentiamo odori che non sentivamo, percepiamo colori, luci che non vediamo abitualmente... e la sessualità strarompente... investe tutto ciò che è dell'amato; di cui noi amiamo tutto persino l'interno del suo corpo, il suo fegato, i suoi polmoni».
Questo è, non c'è dubbio, uno stato "straordinario", non commisurabile a quello ordinario. Tre quarti del libro sono dedicati all'estasi dello straordinario e alla triste constatazione che dura poco e rientra poi nell'ordinario, nella routine dell'amore istituzione. Ma niente paura, anche questo ha del buono, i cavoli valgono la capra, ovvero, per dirla con l'autore, se l'istituzione succede allo stato nascente come il frutto al fiore, «non ha senso in realtà domandarsi se il fiore sia meglio del frutto o viceversa... la vita è fatta di entrambi».
Insomma, ci si carica di innamoramento per uscire dal «sovraccarico depressivo» che suscita in noi l'esistente, e dopo questo bagno corroborante si torna riconciliati all'esistente medesimo. Di resistenze, da una parte o dall'altra, non se ne vedono. Uno può innamorarsi come e quando vuole sotto lo sguardo benevolo dell'istituzione, che si ritira in buon ordine aspettando il ritorno del figliol prodigo.
Il trucco di Alberoni sta nel riprendere il punto numero uno di Marcuse, che si riferiva a Werther e ad Anna Karenina, e sfociava nella morte, come una faccenda alla portata di tutti e sfociante nell'istituzione. Così si trasfigura il numero 2 e l'eros della desublimazione controllata, anziché essere squallido come sembrava a Marcuse, diventa bellissimo. Dove sia poi un mondo siffatto, lo sa solo Alberoni. Chi sa come fa lui a vivere «per giorni e giorni continuamente abbracciato alla persona amata» (con occasionali escursioni nel fegato e nei polmoni), pur continuando a scrivere come un dannato. Forse avrà un contratto speciale con il "Corriere".
Nella "Stampa" del 24 ottobre Gianni Vattimo contrappone alle fantasie del sociologo alcune verità elementari derivanti dal Marcuse numero 3. L'innamoramento alberonico, dato e non concesso che sia possibile, non è raccomandabile, poiché fa parte di una dicotomia ordinario-straordinario che sarebbe appunto da eliminare, essendo legata a una cultura « che rimuove l'affettività e l'erotismo diffusi a tutti i livelli dell'esperienza ». Quindi meno eros concentrato e più eros diluito.
Senonché in Vattimo, traviato dai francesi, sembra che basti la buona volontà e l'assenza di complessi dei singoli e dei gruppi per ottenere la trasformazione. L'esperienza dimostra il contrario.
L'innamoramento di Alberoni non si vede, appena uno lo tenta in macchina viene subito rapinato o ucciso. Invece l'eros diffuso di Vattimo si vede anche in forme clamorose, ma così squallide e disperate che quando Elvio Fachinelli, pur ben disposto, andò anni fa al festival di Parco Lambro ebbe l'impressione di trovarsi a Auschwitz.
Come dice Brecht, non ha senso voler mettere ordine in un porcile, né introdurre l'eros diffuso in un mondo in cui di diffuso c'è solo la crudeltà. Bisogna abbattere il porcile. Il fatto che oggi nessuno sappia come abbatterlo non significa che si debba far finta di non vederlo.

"L'Europeo", 15 novembre 1979

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