13.1.14

Flop. I fallimenti di Hans Magnus Enzensberger (di Marco Pacioni)

Una delle doti migliori della scrittura di Enzensberger è la limpidezza, la fluidità di un racconto senza inceppi, la schiettezza delle opinioni, finanche delle singole parole. Ogni cosa è esattamente se stessa, ogni pensiero è espresso in modo logico e semplice. C’è onorevolezza nel dichiarare senza superbia, usando anzi il distacco sottile dell’ironia. Nel suo modo di procedere c’è un candore consumato, potremmo dire, se non suonasse ossimoro a ingrato rischio di astuzia. Scrittura spontanea e diretta, la sua, e piacere di chiamare le cose col loro nome.
Difficile dire, nel caso di Enzensberger, se si tratti più di indole o di disciplina, più di spontaneità o di nitidezza d’espressione fermamente voluta e rigorosa. E ciò non implica, per forza, l’adozione di un tono fiabesco: anche Il mago dei numeri (Einaudi, 1997) e Ma dove sono finito? (Einaudi, 1998) sono libri serissimi, esempi di una narrativa di impianto pedagogico non priva di leggerezza e di intima complessità. Oltre all’esito in bestseller dei due libri «per ragazzi», basta riandare alla sua aurorale e indimenticabile Difesa dei lupi del 1957, o pensare al garbato ma denso Josephine e io (Einaudi, 2010), o a quell’interessante montaggio sulla vicenda di un rivoluzionario anarchico della guerra civile spagnola che è La breve estate dell’anarchia. Vita e morte di Buenaventura Durruti (Feltrinelli, 1973).
Enzensberger, scrittore poliedrico dalla vena straordinariamente produttiva e recepita con favore dalla critica tedesca e straniera, ha ora raccolto progetti rimasti allo stadio di abbozzo, o procrastinati sine die, o senza mezzi termini falliti, in un libro nuovo, I miei flop preferiti. E altre idee a disposizione delle generazioni future (traduzione di Claudio Groff e Daniela Idra, «Supercoralli» Einaudi). Titolo e sottotitolo, disincantati e sinceri – tutti i flop raccontati sono cari all’autore, sia pure in modi e per ragioni diverse –, indicano subito uno sguardo che si volge al passato e apre al futuro.
Il libro è strutturato in due parti: Flop, che ha amabile sapore memoriale e narrativo, e Magazzino di idee che offre progetti a chi voglia eventualmente servirsene, perché sulle idee «vigono le leggi dell’evoluzione, regnano dunque lo spreco, la selezione e il cambiamento». Le idee sono sovrabbondanti e circolano proponendosi alla libera realizzazione: su di loro «non esiste il copyright». La prima parte, quella che costruisce il carattere dominante del libro e ne fonda autoironicamente il nucleo morale, scopre e annoda alcuni tra i fili più resistenti di una attività intellettuale intensa nei ritmi e varia negli interessi. La seconda parte è potenzialmente costruttiva: «invenzioni» che non hanno oltrepassato «lo stadio di abbozzo» e che a oggi potrebbero essere ancora adottate. Globalmente si ha l’impressione di entrare in un vasto, articolato e compitissimo quaderno di appunti lasciato a lungo decantare, fatto raffreddare, riorganizzato con cura e distanza ironica.
Stilando il regesto dei suoi flop preferiti Enzensberger mette in luce episodi della sua biografia intellettuale e nel contempo delinea atmosfere storico-culturali di respiro internazionale. Che il libro sia improntato a sostanziale piacevolezza è esplicitato – il termine flop è «senza dubbio gradevole già in virtù della proprietà onomatopeica che l’Oxford English Dictionary gli attribuisce» –, e il disincanto nei confronti del mercato editoriale emerge chiarissimo dalla scelta di un termine adeguato e «imprescindibile nello show business». Nessun imbarazzo mostra Enzensberger nel raccontare alcuni dei suoi fiaschi migliori, invita anzi «sorelle e fratelli in Apollo» a fare lo stesso, perché «in ogni circostanza penosa è insita un’illuminazione (...). I trionfi non tengono sottomano nessun insegnamento, gli insuccessi, al contrario, favoriscono in vari modi la presa di coscienza. Consentono di farsi un’idea delle clausole produttive, di usi e costumi delle industrie di rilievo, e aiutano l’ignaro a valutare le insidie, i campi minati e gli impianti di sparo automatici di cui deve tener conto muovendosi su questo terreno».
L’intento, dunque, attraverso lacerti autobiografici, è al fondo politico: il racconto dei fiaschi ha funzione disvelatrice (oltre a essere «terapeutico» e – sia detto a voce bassa ma con forte speranza
– capace di «mitigare malattie professionali degli autori quali perdita di controllo e mania di grandezza»).
Tanto per essere chiari, rispetto alla vocazione d’autonomia di Enzensberger, e rispetto alla frizione spesso posta in rilievo tra fruitori e critici, il libro si apre con un’operazione avventata, la stesura, a metà dei Cinquanta (da principiante, dato l’anno natale 1929), di un poema in prosa che garantisse coesione a un film sperimentale già montato, Giona: entusiasmo della critica, deserto del pubblico tenutosi «cocciutamente alla larga». Numerosi flop riguardano il cinema – a grosso rischio, si sa, per il bisogno di investimenti cospicui –: un film sull’«eccelso» illuminista Lichtenberg che fa parte dei suoi «lari», corposo e fantastico canovaccio sull’enigma dell’attrazione erotica, progetto non fallito, in verità, ma senza fine rinviato; uno su Humboldt, famoso ma poco compreso in patria, cui dedicò un ampio e suggestivo brogliaccio, ma non una sceneggiatura vera perché chi scrive sceneggiature «ha lo stesso peso della quinta ruota del carro» e in più viene considerato «un presuntuoso guastafeste vittima dell’illusione che il film in realtà sia roba sua». Contiguo al mondo del cinema è quello dell’opera lirica. Ecco allora il libretto per un’opera buffa sul Politburo, che continua ad attendere la musica del «celebre» e «spiritoso» Wolfgang Rihm, caduto in « prolungata depressione» alla morte della madre; l’ipotesi di due brevi libretti col titolo «rubato» a Leopardi, Operette morali, per portare «un po’ di vita nel trantran» del teatro d’opera, senza arrivare a dargli fuoco, come avrebbe voluto Pierre Boulez, e senza neanche sposare (con sorpresa e sdegno dei critici) «le offerte più stridule della neo-neo-avanguardia». Sorridente, oggi, il racconto di come venne «sotterrata» La tartaruga, suo esordio drammaturgico nel 1961 a una riunione del Gruppo 47: la lettura della sua commedia su un vecchio cancelliere federale ostinatamente aggrappato alla sua carica, allora, non fece ridere nessuno. Ma su tutti brillano i flop editoriali, istruttivi quant’altri mai. Il fallimento di una pregevolissima intrapresa periodica come «Gulliver», un foglio che aveva tra i suoi ideatori anche Uwe Johnson, Ingeborg Bachmann, Martin Walser, Günter Grass, e che avrebbe dovuto rompere l’isolamento della Germania Federale coinvolgendo un’équipe internazionale (Butor, Barthes, Starobinski, Genet, Calvino, Vittorini, Pasolini, Fortini...): sepolta «senza strilli né pianti», commemorata sul «Menabò» nel 1964. E inoltre: l’ambiziosa rivista «TransAtlantik», pensata per colmare la mancanza in patria, negli anni settanta, di una rivista come il «New Yorker»; o l’«Intelligenzblatt», rivista che avrebbe dovuto formare un’opinione pubblica critica, tenendo vivo nella memoria uno sfogo di Hegel contro le «fabbriche di recensioni in cui la mediocrità si protegge e si custodisce a vicenda».
Nel Post scriptum Enzensberger offre la sua morale usando un apologo di Wilde. Ma noi possiamo trarre un tutto nostro o mythos delòi: offrire alle stampe questo libro è una virtuosa e didattica ritorsione contro il mercato: dai fiaschi si può trarre impeccabile profitto.

“alias della domenica”, 17 giugno 2012

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