15.1.14

Lettera a mio padre (di Franco Fortini)

La lettera al padre di un figlio in qualche modo “degenere” è tema canonico della letteratura, forse della vita. In Italia la più famosa – credo – è un capolavoro di reticenza, è quell’obbedisco senza umiliazioni che il giovanissimo Giacomo Leopardi esprime in segni d’inchiostro al padre Monaldo che ha sventato il suo progetto di fuga e gliene ha chiesto per iscritto conto e ragione.
Gli elementi di un conflitto, non solo “edipico” come si usa dire, ma anche di cultura, incardinato in una storia di lotta fra classi, si avverte anche nella lettera qui postata, che Franco Fortini indirizza al padre, un avvocato ebreo fiorentino cui si era, anche frontalmente, ribellato nella prima giovinezza. Eccezionalmente il poeta e scrittore accompagna al cognome de plume con cui è conosciuto, Fortini, il cognome del padre e dell’anagrafe, Lattes. 
Non so dire se si rintraccino nella lettera elementi che chiaramente la connettano alla religione e alla tradizione culturale dell’ebraismo, apparentandola alla celeberrima Lettera al padre di Franz Kafka, ma non è male ricordare che quest’ultima fu edita, postuma, nel 1952, qualche anno dopo che il testo qui ripreso fosse pubblicato sull’Avanti!, il 19 dicembre 1948.
La connotazione storico-politica delle vicende della propria famiglia spiega la scelta di Fortini di pubblicare una lettera “privata” sul quotidiano storico dei socialisti e dei proletari piuttosto che su una rivista letteraria o su un foglio “borghese”. 
Ma perché a sua volta il quotidiano socialista offre così grande spazio a un testo dedicato al “personale”? Non si tratta, certo, di una dilatazione della pagina “letteraria”, ma di una scelta politica. In quel momento l'Avanti! era diretto dall’ingegnere Riccardo Lombardi, leader di degli autonomisti, nel brevissimo periodo di predominio sui “frontisti” di Nenni e Morandi. Con la lettera di Fortini il quotidiano proponeva un tema di qualche rilevanza politica: tra socialisti e comunisti si contavano a centinaia - a tutti i livelli - i figli di quella borghesia delle professioni, colta, di idee liberali, che - pur nel dissenso - aveva convissuto senza ribellioni con il fascismo trionfante. Per Lombardi riempire una pagina intera con la “lettera al padre” di un letterato che aveva tradito la classe di origine e gli stessi affetti familiari poteva rappresentare un antidoto al settarismo operaista e antiintellettuale che accompagnava - in quel Natale del 48 – la greve polemica frontista e filostaliniana di Rodolfo Morandi. (Togliatti, invece, i suoi intellettuali d’origine borghese, quando sapevano stare al loro posto, senza pretese autonomistiche alla Vittorini, se li coccolava.) (S.L.L.)
Ivrea 1947. Franco Fortini nelle officine Olivetti (http://www.storiaolivetti.it/ )
Non sono stato, lo sai, uno di quei figliuoli che il giorno compleanno dei loro genitori nascondono nel tovagliuolo una lettera affettuosa. Ho dovuto avere più di trent'anni per poter pensare di farlo. La nostra casa non aveva di quelle abitudini; perché non aveva abitudini. C'era il senso che nulla fosse fondato, nulla sicuro. Fino a che ebbi otto anni, siamo vissuti nelle pensioni e nelle camere ammobiliate. Contano, queste cose; non avere uno scalino scheggiato, un solaio, da ricordare. Poi appartamenti d'affitto, col nome d'ottone sull'uscio. Non eri legato alla casa, ai mobili; ma sì alla città, dalla quale non ti sei mai allontanato, dalle sue conversazioni, i concerti, le partite di calcio. Quella città che per me è insostenibile, troppo esemplare e al tempo stesso avvilita, avvilita in orgoglio.  
Quante dunque le cose che il tuo figliuolo ti potrebbe dire, in questo giorno dei tuoi sessant'anni. Come se i rapporti fra padri e figli non fossero mai stati scritti o pensati. E quale di quei rapporti, è il più squallido? Pensarsi a vicenda, figli e padri, come immagini reciproche di fine, specchi di disfatta. Ho pensato spesso che dovesse essere così, fra di noi, con la disperazione che mi prendeva, ragazzo, di non poter scontare mai le parole malvage che ti avevo gettate («A tuo padre! A tuo padre hai detto questo!» mi ripeteva mia madre, chiuso l'uscio dietro di sé) e che tu, smarrito in viso, avevi ascoltate, dilatando le pupille. Per questo un giorno era necessario che tuo figlio prendesse in mano la penna per guardarti in viso: non per speranza di dir tutto, o di dir bene. Facilità e bello scrivere son pronti a tradirlo. Ma perché quel guardarci dissolva le paure e le vergogne che accompagnano sempre figli e padri, senso della pietà e senso della morte. Perché tu sappia, per la bocca del tuo figliuolo, che, se egli è cresciuto, ha lasciato la casa, ha moglie con sé, e libri da scrivere e leggere, non è stato per distrarsi dalla vita di suo padre, per non riconoscerla. Anzi, è proprio il tuo viso, che gli par di riconoscere in certe figure che vanno con lui, scosse tra la folla del tram o in certi sguardi che gli corrono incontro, per la via o a una svolta. E questa cosa grande e seria, essere padre, essere un uomo che ha portato frutto nel mondo della carne, gli appare non desolata e irrimediabile come l'angoscia che qualche volta, con un brivido, lo percorre, ma desiderabile forse e come consolata e composta da una necessità che, poco a poco, diventerà saggezza. È abbastanza breve il tempo del vivere, ormai lo sappiamo tutti e due.

* * *

Come si compone, ora, a ripensarla, la sorte della nostra famiglia, in quella del nostro paese e del mondo. Eri cresciuto in quello che, alle sue origini, aveva dato franchigie di eguaglianza agli ebrei, possibilità di salire dai commerci alle professioni liberali: era l'Ottantanove già eroismo monumentale in Michelet e Carducci, era Mazzini nel '49, il volto che giammai non rise; era Hugo e l’affaire; il solo inno che potevi ascoltare, la Marsigliese.
E la fiducia nella ragione, nella persuadibilità, nella parola. E per tutta la tua vita dovevi vederli derisi, quella fiducia e quei pensieri.
Eppure sai come la gente della tua classe s'adattò presto, fra il '19 e il '25, dopo le paure dei rossi e i sollievi dei neri. Per loro, dietro l'equivoco risorgimento (che a Firenze era stata una faccenda di agrari progressisti e di letterati amici dell'Inghilterra) c'era sempre un granduca, un saper vivere, un volere vivere, tutto d'agio. Chi poté e seppe fece quattrini e allevò un figlio - per l'Africa o la Spagna o la Russia. Ma tu, se avessi perduta quella fiducia nel diritto, nella ragione, nella non-colpevolezza profonda degli uomini, anche di quelli che ti avevano bastonato e cercato a morte, in che cosa ti saresti potuto rifugiare? La vecchia fede dei tuoi padri era lontana, culto dei morti. Impossibile che la ragione non finisse per trionfare. Così scesero quegli anni, di lunghe sere passate alla radio, alle voci delle onde corte. Finché non vollero il grigioverde per il tuo figliuolo, e i fascisti non ti cercarono per vendicarsi e i tedeschi per distruggerti; finché la guerra non passò con i giovani uccisi per le tue vie quotidiane, tu pensasti che potesse bastare, come a tanti, la tua obiezione di coscienza. Inferiore al peso dei doveri, la generazione tua; anche nei migliori. Eppure, lo so, voi potete già cominciare a chiedere a noi, in questo crepuscolo italiano: «Che cosa state facendo dei vostri anni?».

***

Quando i fascisti ti arrestarono, io andai nel tuo ufficio e mi sedetti al tuo posto, nella tua stanza d'avvocato, sul seggiolone alla quattrocento, che ha i braccioli anneriti dalle bruciature delle sigarette. Quel tuo «studio» era per me un luogo straniero come quando, bambino, vi capitavo: coi quadri, i disegni, le foto dei colleghi, la scheggia di granata austriaca per fermacarte, le cartelle degli inserti e delle pratiche, i vecchi giornali, gli annali delle riviste giuridiche. Aprii i tuoi cassetti. Pensavo a te come a un'altra persona. Provavo ad immaginare il "cliente" che racconta la sua storia; provavo a vederti quando sei solo. Sfogliai qualche vecchia agenda tascabile: nomi e nomi, indirizzi, appuntamenti, cifre, che coprivano tutte le pagine. Quella, la materia delle tue giornate. Come mi prese allora il senso della vanità del nostro affannarsi, con quanta forza giurai a me stesso che mai avrei permesso la vita mi prendesse a quel modo. E come ero ingiusto! Pochi giorni dopo, ti ricordi, come già nel '25, fui in coda, con la mamma e tante povere donne di Borgo Allegri, per un colloquio, davanti al portone delle Murate. Tu sorridevi, al di là del muricciolo, ripetevi state tranquilli, ma la tua mente era altrove, parevi non capire e ti passavi le dita magre e gialle di fumo intorno ai polsi dove erano state le manette; e la Francia, chiedevi, che fanno i francesi, resistono, resistono ancora? Era il 15 giugno del '40. Io ti guardavo, pensavo alle tue agende, alla tua vita che non avrei voluto avere. Ero ingiusto. Credevo di avere un privilegio, di espressione. Soltanto ora so quanto è stata lunga la tua pazienza e il coraggio. Soltanto ora so quello che ti devo: l'impossibilità di esser cinico, la credulità nel prossimo, la curiosità. Nulla era stato dato a noi in eredità, nessuna possibilità di contatto concreto col reale; il lavoro delle mani, operai, contadini, l'agilità del corpo, sconosciuto a noi cittadini del medio ceto; la forza degli imprenditori industriali, dei tecnici, il coraggio dei commercianti o degli avventurieri, ignoto alla città nostra, di albergatori, artigiani e studenti; la sensualità ricca di trionfo e di scherno, la scienza segreta del saper vivere, corrosa dal gusto di meditare; quasi impenetrabile il mistero delle chiese, dei paesaggi, dei morti del nostro paese, interposto lo strumento intellettuale, fra le cose e noi. Persino tutta una dimensione della lingua ci era negata, confinati nell'italiano dei fiorentini che si disfaceva nel tuttofare di un raziocinio ciarliero, senza nerbo. Borghesi, e tu non avevi fatto che trasmetterle a me, le armi che erano state la tua difesa: la fiducia nel discorso, nell'intelligenza, nella logica formale. E anch'io non ho fatto che credere di poter riscattare tutte quelle nostre limitazioni e debolezze con la parola, e che l'espressione vincesse tutto. Così, dal tuo figliuolo «bravo in italiano» è venuto su uno che scrive versi e prose ma che tutto il suo sforzo più duro lo deve mettere per non esser sempre, per non esser appena e senza speranza quel che tutto ha cospirato a farlo essere: un «letterato».

***

È per questo che tuo figlio ha pensato di dover abbandonare quella illusione di pace nell'intelligenza che tu hai perseguito tenacemente contro tutte le smentite (o non eri andato volontario nell'«ultima delle guerre?») per una pace più perigliosa e difficile; ha pensato di dover lasciare quelle speranze di onore successo e fama che pur lo lusingherebbero e a te farebbero meno ampia la sua distanza e di seguire una strada senza clamori, difficile, dove nessuno ti aiuta, ai margini di quella classe d'uomini che continueranno a chiamarti l' sor avvohato, come chiama me ‘l sciur dutur, anche se sanno che siamo appena i loro compagni. «Che cosa vorrai diventare quando sarai grande?» Non è cambiato, sai? L'orgoglio della mia risposta: «Nessuno».
Vedi, babbo, che finirei col parlare di me; di come ho dovuto lavorare per cominciare a intravedere le necessità che mi faranno libero, per non essere appena un petulante saccente. Ma è come se ancora parlassi di te, della tua vita; e veramente, dirti che cosa c'era sotto la fronte del tuo ragazzo, negli anni che «svoltava male» e che cosa c'è ora, sarebbe il solo modo, per te, di rivedere intera la tua esistenza, fino a questo giorno dei tuoi sessant'anni. Ma, chi siamo, possono dircelo soltanto gli atti compiuti, le parole date agli altri, le opere nostre; e perché tu lo sapessi, bisognerebbe che tu potessi averli seguiti, i tuoi atti, e le parole e i consigli, fra quanti  - mille e mille - si sono rivolti a te ed hanno sperato nelle tue parole, i detenuti in attesa di giudizio, i parenti dei colpevoli e quelli degli innocenti, la gente che ti ha voluto male e quella che ti vuol bene; che tu potessi rivedere i visi dei tuoi difesi, da quelli dei processi politici del '23 e del '24 a quelli arrestati quest'anno, dopo il 14 luglio.
Ma neppure questo basta. C'è qualcosa in noi che non ci è dato conoscere nel viso degli altri, nemmeno negli occhi del figlio o del padre. E tu, anche se non vuoi pensarci, lo sai. Qualcosa che è come un residuo, forse un inganno; e che somiglia a una speranza, di salvezza. E se tu siedi in una di queste sere d'inverno nella poltrona del tuo studio fra le carte della tua esistenza, la cenere delle sigarette e le foto dei tuoi figliuoli bambini, quando il telefono tace ed è l'ora di tornare verso casa, dove mia mamma ti aspetta come tutti i giorni della sua vita, io so che ci pensi; come anch'io, babbo, ci ho sempre pensato. Che quella incredibile parte di noi stessi, quel centro luminoso od oscuro che, per chi sa pregare, è il luogo della preghiera, ci dia serenità e pace; questo è l'augurio che mando a te e che eguale pronuncio a me stesso.
E ora, accanto al "cognome di penna" che corre sotto i miei "articoli" da quando i fascisti vollero infamare il tuo perché ebreo, e togliere a me come a te la parola e il lavoro, lascia che, per una volta, io scriva il tuo. Non so se sono due anime; non credo troppo a questi drammi. È il nome di mio padre, di un uomo che vollero umiliare. Come certi operai anziani o già vecchi che, la sera, in tram, riposano le mani sulle ginocchia, stanchi della giornata e degli anni e che reggono dall'infanzia il peso dell'ingiuria e dell'ingiustizia del mondo, non ti hanno potuto umiliare.
Franco Lattes Fortini


«Avanti!», 19 dicembre 1948.
ora in Saggi ed epigrammi, I Meridiani Mondadori

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