10.1.14

Lamenti lamenti lamenti. Le Lettere del giovane Eliot (Romano Giachetti)

Gli epistolari dei grandi (e anche dei nongrandi: rampolli dell'aristocrazia e parvenus di ogni genere) sono spesso caratterizzati, negli anni giovanili, da continui lamenti su basse difficoltà quotidiane: malattie, povertà, case squallide, abiti logori. Non fa eccezione a questa regola l'atteso primo volume delle Letters of T.S. Eliot, curato dalla sua seconda moglie, Valerie Eliot (Harcour Brace Jovanovich), che copre l'arco 1898-1922: dall'infanzia alla pubblicazione di The Waste Land. Il libro contiene una litania dei soprusi subiti dal poeta; ma anche, per fortuna, non poche riflessioni che fanno luce, essendo in gran parte inedite, sul momento fondamentale della sua rinuncia all' America per l'Inghilterra.
Thomas Stearns Eliot aveva certamente, in quegli anni, di che lamentarsi. Harvard, dove arrivò nel 1906, lo deluse perché volgare e disordinata. Parigi, dove passò due anni (1910-11, alla Sorbona), lo respinse perché Aristotele si può studiare solo a Oxford. Ezra Pound, che Eliot conobbe nel 1914, lo irretì nella giostra del modernismo più di quanto avesse fatto la lettura di The Symbolist Movement in Literature di R.A. Symons (uno dei capisaldi della sua formazione). Poi, nel 1915, sposò Vivien Haigh-Wood, che Bertrand Russell giudicò subito destinata a uscire di mente. Le conseguenze del matrimonio furono drammatiche: il padre di Eliot gli tagliò il mensile, lui dovette rinunciare alla carriera accademica, abbandonò l'America e trovò lavoro presso la Lloyds Bank.
Ma, sebbene pubblicasse tra l'altro Prufrock e nel 1922 assumesse la direzione della rivista letteraria The Criterion, il rientro all'ovile del vecchio mondo (abbandonato da un suo avo nel 1670) si rivelò catastrofico. “Le città universitarie sono deserti intellettuali qui come in America, solo che qui il deserto lo organizzano meglio, scrive a Conrad Aiken. Ma la mia decisione è giusta: qui sarò felice”, comunica imprudentemente al padre. Si fa coraggio, certo; però “Prufrock è il mio canto del cigno”, confida al fratello Henry nel 1916. Due mesi dopo torna a scrivergli: “Sono sconfitto su tutto il fronte, alludendo al suo matrimonio e alla sua poesia”.
In questa montagna di lettere indirizzate a settantaquattro interlocutori, Eliot sembra spesso un vinto. Alla cugina Eleanor dice: “Vivo in un romanzo di Dostoevskij, non in uno di Jane Austen”; ed esprime commozione per un fattorino ebreo di nome Joseph, che già sogna di entrare in possesso di cinquemila sterline; come se la stessa cosa non la sognasse anche lui. Sul finire della grande guerra Eliot cerca di arruolarsi nello spionaggio americano, ma senza riuscirci. “La burocrazia militare mi ha fatto perdere due settimane di stipendio alla banca”, si lamenta col padre.
Dante, padre spirituale, gli suggerisce di continuo l'idea dell'inferno: malattie fisiche, crolli mentali, umilianti collette organizzate da amici, Vivien alla deriva, fallimento del matrimonio. E' però in questo inferno che Eliot crea la sua poesia. In questa società solo i manovali della penna possono comporre versi, afferma, senza riflettere che lo fa anche lui. Intanto tiene fitte corrispondenze con Marianne Moore, Julian Huxley, James Joyce, Virginia Woolf, Paul Valéry, André Gide, Hermann Hesse, Sylvia Beach, e naturalmente Pound e Russell.
Sono, le sue, lettere studiate, analitiche, che rimandano a ciò che egli scrive in altra sede, nei saggi, nelle recensioni. Solo con Aiken e Pound si abbandona alle vere confidenze. “Devo imparare a parlare inglese”, scrive a Aiken nel 1914. E più avanti: “Le preoccupazioni minute uccidono, e l' America vive di preoccupazioni... Si dovrebbe poter guardare alla propria vita come se fosse la vita di un altro. In Inghilterra questo è difficile, in America è quasi impossibile”. A Pound, che pure ha definito prima benintenzionato ma incompetente, manda una recensione-adesione a un suo (di Pound) manifesto letterario, nella quale chiarisce la propria posizione verso l'America. “La perniciosa influenza dell'atletica, dell'assistenza sociale e dei sermoni...”, scrive. “Un'università non è una scuola di agricoltura, ma in America le scuole di agricoltura sono più oneste delle università... Ciò che mi allarma è l' americanizzazione delle nostre università, non il loro prussianesimo. I tedeschi, se non altro, vantano qualche fatto; noi, solo parole. Loro hanno l' Archeologia, noi abbiamo Come apprezzare i cento massimi dipinti ... Dovremmo parlare della malefica influenza della Verginità sulla Civiltà Americana”.
Se però è sbagliato attribuire la sua scelta inglese al matrimonio con Vivien (Eliot la sposò pur amando l'americana Emily Hale), è altrettanto sbagliato supporla provocata dal suo rifiuto del mondo accademico americano. Quando scrive “mi sento soffocare”, non parla il professore universitario deluso: è Prufrock che si sente spiritualmente fuori da una società che reputa inferiore ai valori estetici di cui si crede portatore. Il dramma di questa prima fase della sua vita (seguita da quella in cui avverte le circostanze imprigionanti della civiltà, e da quella in cui cerca rifugio nella religione) è nel suo non trovare pace nella nuova patria.
C'è poco da fare: la vita di Eliot è un dramma irritante, e la lettura di queste lettere non attenua l'irritazione. Si ha un bel tentare di giustificare (come fece, tra gli altri, Stephen Spender nel 1975) il suo continuo riferirsi a monarchia, ordine, chiesa, dogma, disciplina, autorità, aristocrazia (la Roma ideale di Virgilio anziché la Grecia) come forze positive da contrapporre, su un campo di battaglia solo simbolico, alle forze negative: progresso, liberali, ebrei cosmopoliti, ecc.; queste allusioni balzano in evidenza (e disturbano) nelle lettere, che non hanno nulla di simbolico e si rivolgono a persone reali. Alla poesia di Eliot si può chiedere il risarcimento di tutto questo; e infatti lo si fa. Purtroppo l'epistolario non è intriso solo dei piagnistei dello snob offeso che sia pure con estrema eleganza si lamenta della vita: esso rivela la convinzione che in America la civiltà non c'è, e in Europa (in Inghilterra) si sono dimenticati di com'era. La scoperta che permettono queste lettere è che, dopo essere salpato da Boston, Eliot non approdò mai veramente a Southampton. Nemmeno quando prese la cittadinanza inglese.


“la Repubblica”, 18 settembre 1988

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