28.1.14

"Rubate ciò che vi è stato rubato" (di Hans Magnus Enzensberger)

Da La fine del Titanic
Canto Quinto
Rubate ciò che vi è stato rubato,
prendetevi finalmente quel che è vostro, gridava,
intirizzito, la giacca gli andava stretta,
i suoi capelli guizzavano sotto le gru
e lui gridava: io sono uno di voi,
cosa state ancora ad aspettare? Adesso
è ora, sfondate le barriere,
gettate la gentaglia a mare,
comprese le valigie, i cani, i lacché,
le donne anch'esse e persino i bambini,
con violenza, coi coltelli, con le nude mani!
E mostrava loro il coltello,
mostrava loro la nuda mano.

Ma quelli della terza classe,
emigranti tutti, stavano lì fermi
nell'oscurità, si toglievano tranquillamente
il berretto e restavano ad ascoltarlo.

Ma quando vi deciderete a prendere vendetta,
se non vi muovete subito?
O forse non siete capaci di vedere del sangue
che non sia quello dei vostri figli e il vostro?
E si graffiava il viso
e si feriva le mani
e mostrava loro il suo sangue.

Ma quelli della terza classe
lo ascoltavano e tacevano.
Non perché non parlasse lituano
(non parlava lituano);
non perché fossero ubriachi
(le loro antiquate bottiglie,
avvolte in panni grossolani,
erano state da tempo scolate);
non perché avessero fame
(avevano anche fame):

non era per via di tutto ciò. Non era
così facile da spiegare.
Capivano, certo, quel che diceva,
ma non capivano lui.
Le sue parole non erano le loro.
Erano rosi da paure diverse
dalle sue, e da altre speranze.
Rimasero lì in piedi, pazienti,
con i loro zaini, i loro rosari,
i loro bambini rachitici,
dietro alle barriere, gli fecero largo,
lo ascoltavano, rispettosamente,
e attesero, finché non affondarono.

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