11.10.15

L’autobiografia tutta irlandese di Brendan Behan (Viola Papetti)

Uno scrittore formato dal carcere
Causa repubblicana e alcool nei pitali
Solo a Brendan Behan si poteva attribuire una autobiografia tanto succinta e iperbolica, di immancabile effetto: «Sono stato giudicato da una corte marziale in mia assenza, e condannato a morte in mia assenza, così dissi, mi potete anche fucilare in mia assenza». A otto anni era già nella Fianna, tra i pulcini dell’IRA, ma ne fu cacciato a undici perché si era presentato ubriaco alla commemorazione di Tom Wolfe - era stata la nonna a iniziarlo all’alcol, grande bevitrice e detentrice di armi per la causa repubblicana.
Una passeggiata con l’impareggiabile nonna e certe sue amiche è ricordata in questa ultima autobiografia Confessioni di un ribelle irlandese (traduzione di Enrico Terrinoni e introduzione di Rae Jeffs, Giano Editore, pp. 397, € 16,00), dettata al registratore a Rae Jeffs, e pubblicata postuma. «Quindi, dopo aver fatto visita a sette diversi pub nella zona Nord, decidemmo di bere un po’ anche a Sud ... Ero distrutto, fisicamente e spiritualmente: la testa mi sprofondava nella spalla sinistra. Piovigginava, e un anziano signore si avvicinò alla nonna e le disse: “Che bambino carino, peccato sia deforme!” “La maledizione di Cristo ti colga! Il ragazzino non è deforme. È solo un po’ ubriaco”». Ci fu un vano tentativo di indottrinamento del precoce peccatore presso i Christian Brothers a Dublino, la città in cui era nato nel 1923. A quattordici anni inaugurò la sua approfondita conoscenza della vita carceraria. Fu nella prigione minorile di Borstal dal 1939 al 41 (The Borstal Boy, 1958), a Strangeways in Manchester, a Mountjoy, dove era morto Thomas Ashe nel 17 per uno sciopero della fame e che divenne il carcere in cui ambientò The Quare Yellow (1954). Qui i condannati «ricamavano dannatissime immagini di misericordia con le scritte "In memoria di Nostro Signore Gesù Cristo” o ’’Il Sacro Cuore” o ancora ’’Per i soldati della repubblica uccisi tra il 1939 e il 1942”», mentre lui era, miracolosamente, occupato a leggere, a fumare, a bere. O a scrivere.
Nel 1942 Behan era stato condannato a quattordici anni di carcere per aver sparato a due poliziotti irlandesi, al cimitero di Glasnevin durante la commemorazione repubblicana della rivolta di Pasqua. Per sua fortuna, la condanna fu ridotta, e uscì nel 46. Aveva ventuno anni quando era arrivato a The Glasshouse ai Curragh, e bevevano birra nei pitali per ingannare i secondini. Sembra che Behan avesse sviluppato non solo una pratica ma anche una teoria, e perché no? una poetica della vita in carcere. La sua schiena s’adagiava tranquillamente sul tavolaccio e la testa sulla giacca, la nudità propria e altrui non l’imbarazzava, la compagnia obbligatoria era una buona occasione per una festa, anzi un’orgia di canti, storie, scherzi, bravate varie e sbronze abissali. Vantava una bella esperienza di paramilitare. Era stato messenger boy per l’IRA, aveva anche lui trasportato armi come sua nonna, aveva sparato, forse ucciso, si era dato alla macchia per giorni, e fu estradato dall’Inghilterra per sempre. Brendan e tutta la sua famiglia sono un bell’esempio di fondamentalismo cattolico declinato all’irlandese, ossia stemperato da innumerevoli bevute di Guinness, arieggiato da bellissime romantiche ballate, imprecazioni pazze, sarcasmi violenti, furberie da poveracci, ma nobilitato da una pratica della carità verso l’estraneo, l’offensore, il nemico che un tempo era il cuore ingenuo del cattolicesimo. Quando non era in prigione, lavorava come imbianchino. «Io praticamente sono nato in un secchio di vernice. Mio padre e i suoi antenati erano imbianchini...». Anche il talento per la bestemmia è ereditato dal padre, mentre la madre, grande cantante di ballate, proveniente da una famiglia di teatranti, gli aveva insegnato a trarre il massimo profitto e divertimento dalla sua vena sentimentale e istrionica.
Le Confessioni appartengono in eguale misura al genere picaresco e all’autobiografia. Se la trama autobiografica tende «alla ricostruzione di un “io”, di un’unità che le diverse esperienze di rottura hanno frantumato in maniera più o meno conflittuale», come scrive Camilla Cattarulla (Di proprio pugno. Auto-biografie di emigranti italiani in Argentina e in Brasile, Diabasis, pp. 145 € 12,50) a proposito di autobiografie insolite, in cui l’autore-personaggio tende dal «basso» del suo condizionamento sociale all’«alto» della scrittura, della legittimazione in un ordine normativo nuovo o politicamente alienato, allora il senso di quest’ultima impresa di Brendan si spiega, e rivela l’intima coerenza. È un testamento spirituale, quale solo un irlandese poteva comporre, nella consapevolezza della morte imminente. Che sia stato dettato e cantato al registratore e non scritto di pugno dall’autore non fa differenza se si pensa a certi logorroici, ma felici monologanti come Sterne o Joyce; e che sia farcito di storie e storielle amene, di ballate vecchie e nuove, di furiose invettive o devote invocazioni, di quelli che una volta si sarebbero chiamati «schizzi dublinesi»: allegre e politicamente indifferenziate brigate di bevitori (guardie e ladri, orangisti e CR = Roman Catholics o Culi Rotti), di nonne e madri terrificanti, di fondamentalisti protestanti o cattolici che scambiano la religione per magia, e in realtà praticano riti tribali. En passant è anche un documento folkloristi-co, sociologico, linguistico che testimonia un fenomeno arcaico: l’«io» profondamente ancorato, avviluppato, ma anche sostenuto dalla sua comunità. Autobiografìa come gesto unico e finale di un local heroe, scanzonata, beffarda come nell’Inghilterra settecentesca rilasciavano i più famosi criminali prima di salire alla forca, a Tyburn.
C’è un’eccitazione di vita nel lento processo della carretta del condannato, seduto sulla sua bara, che percorre Oxford Street tra ali di folla impazzita, così come nell’ultimo tratto di vita spesa nella corsia di un ospedale. Il tono spavaldo è ben reso nella traduzione che conserva la veemenza della voce e dei gesti di Brendan. A quanto riferisce Rae Jeffs poteva parlare «al microfono ogni giorno da dieci minuti fino a due ore. Era un allenato oratore, e i suoi esercizi li aveva fatti al pub, in prigione, alla radio, dove arrivava spesso sbronzo. In quanto cantante di ballate e oratore popolare gli si richiedeva rapidità, belle immagini, e cuore per toccare la corda della nostalgia, dell’amore o dell’odio e del disprezzo. E, come tanti scrittori, dopo la sua morte avrebbe desiderato solo agiografi. «I critici sono come eunuchi in un harem; sanno come si fa, hanno visto farlo ogni giorno, ma loro non riescono a farlo». Nel suo caso, pochi sono i critici che riescono a non diventare agiografi.

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