20.12.17

Cucinare nella terracotta. La “tofeja” canavesana (Marco Guarnaschelli Gotti)

C’era una volta il rame... materiale superbo, gran conduttore, che metteva d’accordo quasi tutti: oggi c’è ancora, ma il prezzo lo rende quasi inaccostabile. Per cotture rapide e medie lo sostituisce bene l'alluminio pesante, mentre buoni risultati danno anche pentole e casseruole di acciaio inossidabile col fondo di rame. Per cotture più profonde, varie scuole si dividono il campo, ma io trovo che la terracotta (coccio) abbia, a parità di prezzo, molte corde ai suo arco. Bisogna usarla però con alcune avvertenze: tener separati gli usi (carne, pesce, verdura), tanto il coccio non costa molto, evitare assolutamente di far attaccare una volta (dopo, in quel punto, continuerà ad attaccarsi), e soprattutto condizionarla, strofinando l’esterno del fondo della pentola o tegame con spicchi d’aglio (l’esterno, attenzione) e lasciandola a riposare una notte piena d’acqua fredda. Dopo, i risultati saranno eccellenti.
Tanto è legata la terracotta alla nostra cucina regionale, al Nord come al Sud, che molte preparazioni hanno tout court il nome del recipiente di coccio in cui son fatte: come per esempio la squisita «tofeja» canavesana, minestra (o meglio piatto unico di maiale e fagioli stufata nel coccio. L’ho mangiata di recente in una versione ingentilita ma nobile al vecchio San Giors di Torino, un albergo ristorante di buona tradizione mercantile prospiciente il magnifico mercato di Porta Palazzo. Posto dove si va per tajarin e bollito, il San Giors, per agnolotti e arrosti, per i buoni barbera e nebbioli della casa, e per il fascino malinconico del quartiere popolare ottocentesco.

Tofeja. Mettere a bagno per 12 ore 300 grammi di fagioli secchi (della melica o anche borlotti); pulire 500 grammi di cotenne fresche di maiale e tagliarle a rettangoli come una carta da gioco. Pulire due chili fra musetto, orecchio, codino e puntine di maiale. Mettere su ogni cotenna aglio e rosmarino tritato, sale e pepe, poi arrotolare e legare a tubetto. Mettere nella pentola di coccio i fagioli, i rotoli di cotenna, tutto il maiale, una cipolla, sedano e carota, aglio, salvia, rametti di rosmarino, due foglie d’alloro, tre litri d’acqua, sale, pepe, qualche chiodo di garofano, poca noce moscata. Sigillare il coperchio con un impasto di farina e bianco d'uovo, infornare a forno bassissimo per sette-otto ore, scuotendo di tanto in tanto la pentola.

PANORAMA - 9 NOVEMBRE 1981

Appendice. 
La piattella di Corteregio ovvero il fagiolo della meliga
La piattella se la ricordano bene gli anziani di Cortereggio, il piccolo borgo del canavese fondato dai Romani vicino al torrente Orco: nei terreni profondi e ricchi di acqua questi fagioli bianchi, reniformi e piuttosto piatti crescono meglio che altrove e, grazie alla bassa concentrazione di calcio nel terreno, sviluppano una buccia molto sottile.
Fin da bambini tutti gli abitanti di Cortereggio si dedicavano alla semina e alla raccolta dei fagioli nei campi di granoturco, una tradizione così radicata che le piattelle erano diventate una importante risorsa economica per questo paese. Ogni famiglia aveva i suoi clienti fissi che arrivavano da tutto il canavese, i soldi guadagnati servivano per acquistare l’uva nel Monferrato tanto che, a volte, le piattelle erano usate direttamente come merce di scambio con l’uva. La pianta rampicante sviluppa i caratteristici fiori bianchi e produce baccelli, anch’essi schiacciati, che diventano gialli al momento della maturazione: da luglio fino a settembre.
Tradizionalmente si seminavano insieme al mais, così il fagiolo poteva avvitarsi attorno al fusto robusto della meliga, che fa la parte quindi del tutore. Alla raccolta si passava pazientemente tra i filari di mais cogliendo i baccelli a mano uno per uno.
Ogni sabato nelle famiglie del paese si cuocevano i fagioli in pignatte di terracotta che venivano portate al forno del paese, usato in precedenza per la cottura del pane e che donava il suo calore residuo alle pignatte, i fagioli cotti in questo modo si usavano poi per insaporire altri piatti durante tutta la settimana. Ogni famiglia aveva la propria pignatta, fabbricata dagli artigiani del vicino paese di Castellamonte, noto per la sua tradizione ceramista.
La ricetta prevede che, insieme alle piattelle, si mettano nella pignatta le cotiche di maiale speziate con sale e pepe, arrotolate e legate a formare le quaiette e altre parti come lo zampino e il lardo, poi si aggiungono la cipolla e altri aromi, si copre di acqua e si chiude. La cottura nel forno al legna, rimasto tiepido dopo la cottura del pane, dura circa 12 ore (la tradizione vuole almeno una notte intera).
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La coltivazione della piattella era diffusa ancora fino agli anni '80, conosciuta anche come piattella di San Giorgio Canavese, il comune capoluogo, ma era nota in tutto il canavese come fasol at Cutres, fagiolo di Cortereggio appunto.
Come per molti altri legumi la sua coltivazione è stata progressivamente abbandonata, data la difficoltà della coltivazione nel mais e della raccolta, solo pochi abitanti hanno continuato a seminarla per autoconsumo, continuando a riprodurre il seme in famiglia e conservandolo fino ad oggi, in quantità minime, salvandolo così dall'estinzione. Ma la fortuna della piattella si lega soprattutto ad un agricoltore di Cortereggio, Mario Boggio, che decide già nel 1981 di consegnare alla banca del germoplasma dell'Università di Torino pochi chilogrammi di fagioli per conservarne la semente. Oggi intorno al lungimirante Mario si è costituito un Comitato per la tutela della piattella canavesana di Cortereggio, formato da chi si è impegnato a seminare nuovamente il fagiolo, dagli abitanti del piccolo borgo e da amici e simpatizzanti che vogliono contribuire a riportare sul mercato questo fagiolo.
Il Presidio si propone di recuperare e promuovere questa tradizione, coinvolgendo in futuro anche altri coltivatori locali e lavorando con altri enti del territorio per riqualificare anche dal punto di vista turistico ed enogastronomico questo grazioso angolo di canavese.
Area di produzione
I terreni della frazione Cortereggio nel comune di San Giorgio Canavese (provincia di Torino)


dal sito della Fondazione Slow Food

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