13.12.17

Il complotto di Stendhal. Industria e libertà nel primo Ottocento (Lucio Villari)

“Sono sei mesi che Santorre di Santa Rosa s'è fatto uccidere a Navarine; non è passato un anno da quando Lord Byron è morto cercando di servire la Grecia. Dov'è l'industriale che ha sacrificato la sua fortuna a questa nobile causa? La classe pensante ha iscritto quest'anno Santa Rosa e Lord Byron tra i nomi destinati a divenire immortali. Ecco un soldato, ecco un grande signore; nel frattempo che cosa hanno fatto gli industriali?”.
Con questa domanda si chiude un breve saggio di Stendhal dall'ironico titolo D'un nouveau complot contre les industriels pubblicato nel 1825 (ed ora tradotto per la prima volta in italiano da Sellerio editore, a cura di Marco Dani). È uno Stendhal inedito anche per altre ragioni: non ultima che la sua voce si aggiunge a quella di moltissimi scrittori, poeti, artisti europei che nel primo Ottocento, di fronte alla incalzante industrializzazione dei maggiori paesi dell'Europa occidentale, all'arricchitevi di una borghesia avida e speculatrice, all'inquinamento e al degrado civile di città e di periferie industrializzate, reagirono con inquietudine e rabbia. Poiché il curatore della edizione italiana del saggio stendhaliano non lo fa, suggerisco al lettore di dimenticare quello che ha letto a scuola sulle sorti magnifiche e progressive della rivoluzione industriale. Nei primi decenni dell'Ottocento non a tutti fu chiaro che l'equazione libertà politiche-libertà economica celava una realtà più problematica di quanto si pensasse, e che il capitalismo, in tutte le sue manifestazioni (dalle fabbriche alle banche), rivelava aspetti sempre più violenti e disarticolanti. Non a tutti, dicevo; ma a qualcuno sì, e proprio ai più colti e sensibili osservatori.Tra questi, appunto, Stendhal: il cui pamphlet, oltre ad essere una protesta nei confronti della mitizzazione dell'industrialismo (in particolare l' autore della Certosa di Parma polemizzava con lo scritto di Saint-Simon Il sistema industriale, del 1821), smascherava l'equivoco ideologico sotteso al paragone tra le due libertà; un paragone ancora oggi inattaccabile.
Ecco allora l'ironia tagliente di queste pagine: “Gli industriali fanno uso della loro libertà come cittadini francesi; impiegano i loro fondi come vogliono: alla buon'ora; ma perché venire a domandare la mia ammirazione (il corsivo è di Stendhal) e, colmo del ridicolo, chiedermela in nome del mio amore per la libertà?”. Giudichi il lettore se la perplessità di Stendhal possa avere qualche risonanza nel tempo che stiamo vivendo; e intanto, ancora un altro a fondo: “L'industrialismo, un po' parente del ciarlatanismo, paga i giornali e prende in mano, senza esserne richiesto, la causa dell'industria: in più si permette un piccolo errore di logica: proclama che l'industria è la causa di tutta (il corsivo è di Stendhal) la fortuna di cui gode la giovane e bella America”.
Fermiamoci un momento qui per un breve commento. È chiaro che l' industrialismo di cui parla Stendhal è quell'apparato ideologico, giornalistico, politico che intorno alla rivoluzione industriale ha costruito, con i mezzi di informazione allora possibili, una sorta di castello incantato esaltandone solo i vantaggi e le commodities (cioè i prodotti e i beni che industria e capitali mettevano a disposizione di un certo numero di persone) e ignorando volutamente i contraccolpi, le ricadute negative e i boomerang sociali e culturali che essa ha prodotto. Ma il riferimento all' America fa venire in mente la riflessione che qualche anno dopo faceva un altro illustre francese, non meno di Henri Beyle osservatore acuto del suo tempo: Alexis de Tocqueville. Ebbene, nella prefazione alla seconda edizione (1840) de La Democrazia in America, Tocqueville annotava: “Man mano che la massa della nazione si volge alla democrazia, la classe particolare che si occupa dell'industria diviene più aristocratica. Io penso che nel suo complesso l'aristocrazia industriale sia una delle più dure che mai siano apparse sulla terra. Proprio verso questa parte gli amici della democrazia devono continuamente rivolgere lo sguardo e diffidare...”. Ad evitare di venir preso per (come dicono oggi alcuni intellettuali industrialisti) un critico romantico della rivoluzione industriale e quindi per un conservatore, Tocqueville precisava: “Appunto perché non sono un avversario della democrazia, ho voluto essere sincero con essa”. E proprio nei confronti del problema specificamente politico, cioè la relazione libertà-democrazia-industrializzazione, non mi pare che Stendhal e Tocqueville fossero degli sprovveduti. Anzi, dalla loro visione liberale viene una lezione attuale che potrebbe essere letta così: nessun modello politico di libertà è concretamente realizzabile senza una contestuale critica delle forme istituzionali e specifiche della società continuamente modellata (e alterata) dalla rivoluzione industriale. E ancora: i meccanismi politici della democrazia non si modificano né migliorano automaticamente; e non si comprende perché solo a quelli economici debbano essere garantiti l'automatismo e l'autonomia della propria riproduzione e della propria (quando c'è) regolamentazione.
Al tempo di Stendhal l'industrializzazione era ritenuta dalla borghesia una conquista della libertà, ma appariva inspiegabile, soprattutto a un uomo di cultura, il fatto che l'evoluzione del capitalismo industriale e finanziario avesse creato intorno a sé un clima nebuloso e impenetrabile dove gli individui, i cittadini, i lavoratori si muovevano (o erano mossi) come oggetti incantati, passivi e storditi. Era una impressione, questa, che ebbe ad esempio Ugo Foscolo visitando, nel 1822, le città industriali di Manchester e di Liverpool. “...I vostri figli - scriveva ad una amica - o al più tardi i vostri nipoti si accorgeranno che la vera rivoluzione sarà qui tacitamente prodotta da un lato dalla disperata miseria della moltitudine, e dall'altro dalla potenza economica dei plebei arricchiti. E, guardando allo sfacelo di Manchester, e anticipando Tocqueville, aggiungeva che ne era responsabile la più terribile delle tirannidi, quella degli Oligarchi padroni delle manifatture che non hanno altra idea, altro sentimento che quello di fare fortuna...”.
Ho sottolineato l'avverbio tacitamente, usato da Foscolo, perché questa parola dà l'immagine viva del dominio silenzioso, sempre più esteso, che l'industrializzazione si è assicurato e di fronte al quale si era (e si è) disarmati e storditi. Ma non per i motivi addotti di recente da Alberto Moravia cioè per la nostra immaturità di fronte all'esperienza ancora relativamente recente della rivoluzione industriale bensì per la ragione opposta: la nostra maturità (alla quale hanno contribuito anche le poesie di Foscolo, i romanzi di Stendhal, il pensiero di Tocqueville) è troppo alta e raffinata per reagire alla elementarità brutale di una rivoluzione industriale che è arrivata a perforare le fasce di ozono dell'atmosfera. Al contrario di quel che ritiene Moravia, non è dunque contraddittorio volere il benessere e averne paura. Ma, per finire: “Perché - si chiedeva Stendhal - dovrei ammirare gli industriali più del medico, dell'avvocato, dell'architetto?”. Oppure, perché, ci chiediamo noi, pensando a Lord Byron e alla sua morte si sorride come di un poeta eroicamente inutile, e lontano, mentre un suo contemporaneo anonimo padrone di manifatture lo si considera, con gratitudine, tra i moderni fondatori della civiltà di oggi?


la Repubblica, 2 marzo 1989  

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