28.5.19

I prefetti del manganello (Miriam Mafai – Vie Nuove, 8 ottobre 1960)

L'articolo qui ripreso, di fine 1960, è il fondo di un numero di Vie Nuove, il settimanale popolare fondato e a lungo diretto da Luigi Longo e pubblicato dagli Editori Riuniti, la casa editrice del Pci. È, secondo me, assai bene documentato ed efficace: bene illustra, qualche mese dopo il luglio 60, che vide in molte città italiane le cariche feroci della polizia e in alcune (Reggio Emilia, Licata, Palermo) i manifestanti antifascisti uccisi nelle strade, il torbido intreccio tra un personale burocratico-poliziesco fascista per origine e mentalità ed il potere democristiano. 
La firma è Mi. M., l'autrice è Miriam Mafai, che al tempo, dopo un'esperienza di amministratrice comunale per il Pci a Pescara, lavorava nella redazione di Vie Nuove, di cui fu anche inviata a Parigi. La Mafai, che un po' più tardi (1962) divenne la compagna di Giancarlo Pajetta, era ancora “organica” al Pci, seppure nel ruolo professionale di giornalista che più le era congeniale; non si era perciò ancora specializzata nel dileggio (generalmente postumo) dei comunisti italiani e del comunismo italiano, in cui si contraddistinse più tardi, a partire da un suo velenoso libro contro Pietro Secchia, e che toccò l'apice nel Dimenticare Berlinguer e nel Silenzio dei comunisti
Parlando del proprio passato la Mafai nel 1995 ebbe a definirsi "una femminista nel partito più maschilista di tutti". Niente da obiettare sul maschilismo del Pci, ma che fosse “il più maschilista”, più della Dc, del Msi e dei saragattiani, è una esagerazione senza fondamento. E lo dimostra proprio l'esempio di Vie Nuove, che all'epoca non solo ospitava come rubrica fisse (lo fece per 5 anni dal 1960 al 1965) i Dialoghi con Pasolini, la cui omosessualità era tutt'altro che segreta, non solo era diretto da Maria Antonietta Maciocchi, ma affidava a una donna, lei stessa, la stesura dell'articolo di fondo, quello che dava la linea al giornale. (S.L.L.)


Solo le comunità i cui cittadini non avevano diritto di voto (cives sine suffragio, di seconda categoria quindi, senza pienezza di diritti politici e civili) potevano, nel diritto romano, essere soggette ai «prefetti», delegati dal pretore urbano per la giurisdizione di città situate ad una certa distanza da Roma.
Una concezione dello Stato che faccia perno sull'istituto dei prefetti, presuppone dunque una società di cives sine suffragio. Il diritto romano aveva il merito di chiamare le cose con il loro nome, merito che si è andato perdendo nei secoli. L'on. Scelba ad esempio, pronunciando il suo «elogio dei prefetti», domenica scorsa a Firenze, ha parlato certamente un linguaggio assai chiaro, ma non quanto sarebbe stato desiderabile. Egli, come si sa, ha dichiarato che «se il prefetto non esistesse bisognerebbe crearlo», ha sostenuto che la sua è una posizione di «naturale preminenza» nei confronti degli organi elettivi dei potere locale, ha insistito che «per quanto ampia possa essere la autonomia degli enti locali», la vigilanza ed il potere prefettizio rimarranno pur sempre elementi «insopprimibili». Tralasciamo qui di sottolineare come questa concessione entri, apparentemente, in contrasto con dichiarazioni fatte da altri esponenti della De i quali si affermano, a parole, fautori di una più ampia autonomia municipale, collegata con la istituzione dell’Ente Regione, così come previsto dalla Carta Costituzionale. A queste parole noi abbiamo sempre creduto con molte riserve, anche per una fondamentale discordanza tra le parole e i fatti; le affermazioni dell’on. Scelba esprimono certamente meglio i reali intenti della politica De anche perché si accompagnano inesorabilmente ai fatti che le confermano. Non c’è dubbio infatti che in questi anni i prefetti si sono comportati, secondo le direttive dei successivi ministri degli Interni, esattamente come delegati a governare «cittadini di seconda categoria», commettendo una lunghissima serie di soprusi, di discriminazioni, di vere e proprie illegalità.
La verità è che ogni prefetto, ancora oggi è convinto di essere la « più alta autorità dello Stato presente nella circoscrizione, cui fa capo tutta la vita della provincia, che da lui riceve impulso e direttive... ufficio non semplicemente amministrativo, ma anche squisitamente politico». «Il prefetto (traiamo questa definizione da un testo di diritto pubblico dell’epoca fascista) ha potestà di comando e di divieto, funzioni di controllo di legittimità e di merito, funzione di repressione e di prevenzione, egli vista omologa autorizza approva nomina delega revoca annulla sospende, sostituisce l’opera propria a quella di uffici ed enti,., espropria liquida spese contratta punisce licenzia, applica multe ordina inchieste, e così via... ».
Questa definizione del prefetto potrebbe non essere che una curiosità storica, se a ricoprire questa carica, oggi nel nostro paese non fossero proprio i vecchi funzionari dello Stato fascista, secondo i quali evidentemente quelle norme hanno ancora vigore.
Quanto affermiamo è rigorosamente documentabile. Sono dati agghiaccianti quelli che sottoponiamo oggi alla attenzione dei nostri lettori. Su 64 prefetti di prima classe, tutti (escluso uno: l’avv. Luigi Peano) hanno avuto incarichi anche di alta responsabilità durante il regime fascista. Un esiguo gruppo di questi alti funzionari, esattamente i prefetti di prima classe: Rizza, Palamara, Zacchi, Mauro, De Sena, Morosi, Jannoni, entrarono in servizio prima della "Marcia su Roma”. Il regime li conservò ai loro posti, facendoli avanzare verso i gradi più elevati. Una buona parte degli attuali prefetti della Repubblica potrebbero poi essere definiti come appartenenti alla «leva Matteotti»; sono infatti coloro che entrarono in servizio in quel tragico periodo della storia nazionale, una sorta di volontari quindi della amministrazione e della burocrazia dello Stato fascista, e suoi fedeli servitori per esattamente venti anni. Sono i prefetti di prima classe Carcaterra (attuale capo della Polizia), Speciale, Moccia, Celona, Temperini, De Filippo, Limone, Micali, Mascolo, Meneghini, Iodice, Cigliese, Antonucci, Di Pangrazio, Salazar. Immediatamente dopo la promulgazione delle leggi eccezionali, con l’irrigidirsi ormai del regime nelle regole di una dittatura accentrata e sempre più bisognosa di una fedele burocrazia, nuovi funzionari di particolare fiducia vennero selezionati tramite i concorsi ai posti direttivi. È del 26 l’ingresso nella carriera degli attuali prefetti dì prima classe, Foti, Gaipa, Mondio, Carelli, Torrisi, Liuti, Ioannin, Scolaro, Guida, Mininni. Tutti gli altri sono entrati al ministero negli anni successivi compresi tra il 1930 e il 1934.
Questi sono i fedeli funzionari dello Stato fascista, per costume, mentalità e convenienza portati ad una concezione autoritaria, antidemocratica della proprie funzioni, rotti alla discriminazione, all’odio anticomunista ed antipopolare, all'intrallazzo, al silenzio complice ed al servilismo politico, gli uomini ai quali Scelba attribuisce oggi una funzione «preminente» ed «insopprimibile» nella costruzione del nuovo Stato democratico.
Sulla base di questa lunga alleanza tra un potere legislativo nel quale la Dc ha detenuto per lunghi anni la maggioranza assoluta, ed un potere esecutivo rigidamente governato da vecchi funzionari di educazione e mentalità fascista, sta il segreto del predominio, del monopolio di potere della Dc. Per questo noi non crediamo che il governo Tambroni fosse un fatto casuale, una sorta di malefica improvvisazione, dalla quale la Dc si sarebbe riscattata con l’attuale formula governativa. No, il male è alla radice, è in una lunga pratica di potere esercitata insieme, nei gabinetti ministeriali prima ancora che nei corridoi di Montecitorio, tra due corrotte classi dirigenti. E ognuna si è riconosciuta e compenetrata tanto nell'altra che è difficile ormai distinguere quanto ognuna vi abbia dato di suo. Il risultato, il clerico-fascismo, è, comunque, mostruoso.

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