20.5.19

Franco Fortini, il guardiano dell'eresia. Intervista ad Alberto Asor Rosa (Nello Ajello)



Roma
In un articolo su “Repubblica”, undici anni fa, Italo Calvino li immaginò "avvolti in un unico mantello". Si trattava di Franco Fortini e Alberto Asor Rosa, del quale l'autore delle Cosmicomiche stava recensendo un saggio su quarant'anni di dibattito letterario in Italia. Di questo sodalizio ideale con Fortini parliamo appunto con Alberto Asor Rosa, ripercorrendo in sua compagnia l'itinerario che lo scrittore, appena scomparso, ha compiuto nella cultura italiana. Asor Rosa ne è stato un testimone attento, appassionato.
"Conobbi Fortini", racconta, "nella redazione torinese dei Quaderni rossi. Sarà stato il '60 o il '61. Il direttore, Raniero Panzieri, volle far incontrare noi giovani collaboratori con lo scrittore toscano, che era una voce ascoltata della cultura di sinistra. Il suo scetticismo si scontrò subito con la nostra fiducia. Ci espose i suoi dubbi sul particolare tipo di marxismo che orientava la rivista. I Quaderni rossi rappresentavano infatti un unicum nella sinistra italiana, allora inquadrata nel Pci e, in misura minore, nel Psi. Noi volevamo riflettere sullo stato del conflitto sociale italiano al di fuori degli schemi correnti. Fortini si mostrò pessimista sul progetto".
Pessimismo e lucidità sono infatti due specialità di Fortini. "Ci parve, quella volta, un uomo segnato da sconfitte pesanti, a partire da quella del Politecnico. Era più ortodosso di noi, meno sperimentale, più legato ai testi fondamentali e 'datati' del marxismo, come ad esempio Lukacs, una sua passione. Verso i Quaderni rossi mostrò dunque simpatia, non certo identificazione". Non era facile, d'altronde, che Fortini s'identificasse in pieno con qualche posizione politica. Credo che il termine "eresia" sia il più adatto a riassumerne il carattere. "Era un uomo di grandi passioni e risentimenti. Una persona difficile. Litigò anche con Panzieri, cui pure era per tanti versi legato. Lo accusava di tatticismo. Ai tempi del Politecnico aveva litigato con Vittorini, non sopportandone ciò che a lui sembrava la sua superficialità illuministica. Non per questo, nel conflitto fra il direttore del Politecnico e il Pci, si schierava con Togliatti. Anzi, proprio il suo antistalinismo lo abilitava a dar torto a Vittorini senza prestare il fianco ad equivoci".
Alberto Asor Rosa
L'antistalinismo di Fortini si concretava infatti nel rifiuto della cultura ufficiale del Pci, che definiva "metà Croce, metà Stalin". "Va ricordato che Fortini fu socialista con tessera fino agli inoltrati anni Cinquanta. Scriveva sull'Avanti!. Poi si sciolse da ogni partito. Legava la propria vena letteraria al rifiuto del meccanismo capitalistico. Ancora in polemica con Vittorini, sosteneva che chi fa letteratura deve sempre passare per la porta stretta della critica dell'economia politica. Questo personale marxismo, animato da slanci etici, ha convissuto con una vocazione fondamentale di poeta".
Fortini è stato soprattutto un poeta? "Direi di sì. Non ha mai smesso di pensare alla poesia come alla sua voce primaria. I suoi maestri sono i surrealisti francesi, Bertolt Brecht e i grandi poeti italiani, sia del Novecento che della tradizione classica. Ha studiato Tasso con grande acutezza. Per certi versi era legato agli ermetici, di cui spesso si faceva beffa. Si sentiva vicino, per esempio, a Mario Luzi, alla sua poesia percorsa da messaggi universalistici. Un libro di Fortini uscito nel 1959 s'intitola Poesia ed errore. Appunto: la sua è una poesia che rischia l'errore per evitare il pericolo opposto, cioè l'assolutezza conchiusa e completa. L'appello lanciato dai suoi versi non è mai attuale. È sempre volutamente fuori tempo, e quindi contro il tempo. La raccolta Foglio di via (1946) portava già il segno della sua vocazione profetica e ribelle. Della sua categoria del rifiuto".

I titoli di Fortini
Vi versava quella fervida immaginazione epigrammatica che aveva fra l'altro sperimentato nell'attività di copywriter pubblicitario, esercitata (a puro titolo di "gagne-pain") per la Olivetti: ebbi occasione di lavorare per alcuni anni con lui, in quegli uffici milanesi. Foglio di via, Verifica dei poteri, Astuti come colombe, Questioni di frontiera, Insistenze, tutti slogan che contribuivano a designarlo come un insonne controllore della moralità politica. Come addetto a un posto di blocco che non lasciava passare tatticismi e bugie. "Sì, Fortini era un po' un guardiano. Per fare un esempio, non sopportava gli infingimenti della letteratura industriale, di moda nei primi anni Sessanta. Non riteneva obbligatorio, per i letterati, scoprire le nuove realtà produttive. Pensava che mettersi al passo con la realtà potesse nascondere un'ipocrisia maggiore che il fingere di non vederla".
Come saggista, quali sono i suoi libri più felici? "Ce ne sono di straordinari, a cominciare da Dieci inverni che riassume in termini eloquenti emozioni e pensieri della stagione 1945-55, gli anni della guerra fredda. E poi il saggio sul "metellismo" (dal romanzo Metello di Pratolini), tante pagine della Verifica dei poteri e di Astuti come colombe. Scritti che contenevano moniti a volte sferzanti, e che proclamavano l'indisponibilità del loro autore a condividere tesi precostituite e ad appiattirvisi. In questo, Fortini era una rarità. In pochi intellettuali ebrei ho colto un rifiuto così radicale della cultura di origine. Le sue obiezioni alla politica di Israele erano durissime".
Alle riviste cui collaborava, Fortini offriva il suo contributo senza abbracciarne il "credo". Così era stato, nei primi anni Quaranta, con Letteratura. Così fu con Il Politecnico. Così con Officina, Comunità, Il Contemporaneo. Maggiore comunanza di idee ebbe, sempre negli anni Cinquanta, con la rivista Ragionamenti di Roberto Guiducci. Diffidò del gruppo '63, fiutandovi il tentativo - per lui esecrabile - di saldare neoavanguardia e neocapitalismo. E giù anatemi in forma di slogan o di imperativi. Come "rifiutare la stretta di mano" (ai messaggeri culturali del "miracolo") o togliere fiducia ai "rappresentanti di commercio della letteratura tecnologica". "Come stupirsi? Quelli della neo-avanguardia facevano il contrario di ciò che lui credeva giusto. Da un lato promuovevano operazioni formali, e dall'altro si avviavano in gruppo alla conquista del mercato".
Il catalogo delle sue allergie era ampio. Proviamo ad estrarne qualche nome. "Considerava Calvino un astuto stratega del proprio successo. In Eco vedeva un sapiente inventore di formule. Di Cacciari non sopportava il vezzo di civettare con Nietzsche e il pensiero negativo".
C'è un capitolo importante: Fortini e il Sessantotto. Leggendo soprattutto i Quaderni piacentini si nota il suo passaggio da un originario entusiasmo a una delusione definitiva. "Il suo approccio iniziale al movimento dei giovani fu molto forte. Durante una manifestazione fiorentina per il Vietnam - sarà stato il 1966 - Fortini pronunziò un discorso in versi che ebbe molta risonanza fra i militanti. Vi si stabiliva una stretta relazione fra le lotte dei vietcong e le rivendicazioni operaie in Occidente: un'equazione destinata a entrare nel senso comune giovanile. Molto meno fervida fu poi la sua partecipazione allo sviluppo concreto del movimento. Non amava protagonismi di tipo pratico, non accettava di atteggiarsi a 'leader anziano' . I suoi rapporti con quell'ambiente si attenuarono man mano che il Sessantotto si burocratizzò e frammentò in tanti piccoli gruppi".
Poi c'è stato il Fortini professore... "Andato in cattedra dopo i cinquant' anni, ha assunto questo lavoro con serietà. Docente a Siena, non ha mai cercato di avvicinarsi a Milano dov'era sempre vissuto. Amava la didattica. La divulgazione lo appassionava. Ha prodotto, negli anni di Siena, interessanti materiali di manualistica letteraria".
Ritornando all'immagine di Calvino, quali pensieri riuniva voi due sotto un unico mantello? "Ho sempre ammirato l'inflessibilità delle sue posizioni. Ho discusso invece il ruolo, che lui affidava alla poesia, di parlare a nome di tutti e di protendersi verso il futuro come unica speranza residua. Lo spiegai nel 1968 in un saggio dal titolo L'uomo, il poeta, centrato sulla sua figura. Fortini ne soffrì. Penso tuttavia che il nostro legame si sia consolidato negli anni. Ci siamo trovati accomunati in una solitudine crescente man mano che vedevamo compromesse le possibilità di un'evoluzione positiva della cultura di sinistra. Eravamo più distanti mentre lottavamo che nel momento in cui siamo stati sconfitti".

“la Repubblica”, 29 novembre 1994

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