13.5.19

I trombettieri del Duce. Intellettuali e fascismo (Nello Ajello)

Luigi Pirandello

Il telegramma era "vibrante". Mittente Luigi Pirandello. Destinatario Benito Mussolini. "Eccellenza", vi si leggeva, "sento che questo è il momento più propizio di dichiarare una fede nutrita e servita in silenzio. Se l'Eccellenza Vostra mi stima degno di entrare nel Partito Nazionale Fascista, pregerò come massimo onore tenervi il posto del più umile e obbediente gregario". "Il momento più propizio" era in realtà temerario. Il messaggio dello scrittore arrivava a Mussolini nel settembre 1924, tre mesi dopo il delitto Matteotti. Il regime appariva malfermo, di incerto avvenire.
Quello dello scrittore siciliano era un gesto al limite della provocazione. Per gli uomini di cultura i tempi erano duri. La scelta di campo, drammatica. Benedetto Croce, quando Pirandello spedì il suo telegramma, aveva già provato verso il fascismo due sentimenti disparati: simpatia e pentimento. La fase "romantica" del regime lo aveva trovato ben disposto verso quel Mussolini che gli descrivevano "come un popolano impetuoso e anche violento, ma generoso e amante della patria". Perciò, avrebbe raccontato il filosofo, "io non mi misi fra gli oppositori". E poi, non c'era re Vittorio Emanuele III a presidio delle istituzioni liberali? Passato il caos (Croce non era il solo a pensarlo), la politica dei nuovi governanti sarebbe rientrata nell'alveo costituzionale, scongiurando la minaccia di sussulti rivoluzionari a sinistra. In questo modo, Croce riuscì provvisoriamente a conciliare il dissidio tra la fede liberale e l'accettazione del fascismo. "Se i liberali", dichiarò il 27 ottobre 1923 in un'intervista al Giornale d'Italia, "non hanno avuto la forza e la virtù di salvare l'Italia dall'anarchia in cui si dibatteva, debbono dolersi di se medesimi, recitare il mea culpa, e intanto accettare e riconoscere il bene da qualunque parte sia sorto, e prepararsi per l'avvenire". 
Benedetto Croce
L'avvenire indurrà Croce a cambiare idea. Il suo operoso pentimento contribuirà ad assicurare alla cultura italiana un residuo di dignità. Attirerà sul filosofo violenze squadristiche (l'assalto alla sua casa di Napoli, la devastazione della biblioteca) ma soprattutto reazioni di sarcasmo impotente. "C'è qualcuno più idiota di Ivanoe Bonomi?", si chiederà in un enorme titolo il giornale romano L'Impero. "Sì, Benedetto Croce". Definirlo, sulle prime pagine, "un cadavere" sarà una prova di lealtà al regime. Il cui Capo, dopo aver affermato di non aver "mai letto un rigo" del filosofo, lo chiamerà "imboscato della storia".
Gabriele D'Annunzio
Poche grandezze. Molte miserie. Parecchi travestimenti. La vita culturale si rimodellava sulla propaganda del regime. A dargli uno stile, suggerendo slogan e rituali, lavorava già da tempo Gabriele D'Annunzio, il poeta-soldato, l'eroe di Fiume. Ecco la ricetta, ricostruita dallo storico Michael A. Ledeen: "Il discorso dal balcone, il saluto romano, il grido eia eia alalà, il dialogo drammatico con la folla, il ricorso a simboli religiosi in una nuova ambientazione laica, l'elogio funebre dei 'martiri' della causa e l'uso delle loro 'reliquie' nelle cerimonie pubbliche". Fu davvero fascista, il poeta dell'Alcyone? O invece, assorbendo ogni trovata del Grande Suggeritore, fu invece il fascismo a farsi dannunziano? Nel suo D'Annunzio politico, Renzo De Felice delinea il lungo conflitto, mai risolto, fra la passionalità dell'abruzzese e la scaltrezza politica del romagnolo. Mussolini, consapevole delle simpatie che il poeta ispirava tra i fascisti, gli mostrava deferenza. D'Annunzio, incredulo sulla piena riuscita dell'avventura mussoliniana, non volle o non seppe opporsi alla marcia su Roma. Un vero romanzo, se si vuole. Dal quale emerge che D'Annunzio "fascista non fu mai, neppure formalmente". Qualche frase perfida nei momenti di maggiore estro polemico: "Oggi", scrisse il Comandante al Duce nel 1923, "i giovani invecchiano precocemente, cantando Giovinezza!". Qualche messaggio apologetico, come quello che gli inviò quasi in fin di vita, nel dicembre del ' 37, quando l'Italia uscì dalla Società delle Nazioni: "Tu hai soggiogato tutte le incertezze del Fato e vinto tutte le esitazioni umane... Non vi fu mai una vittoria così piena". Poi, sul palcoscenico rimase soltanto Mussolini.
Giovanni Gentile
Il capitolo Gentile è così ricco che si trema ad aprirlo. Vi si colgono gli intrecci più complicati fra cultura e potere. Il filosofo superfascista presiedeva istituzioni culturali assai influenti: l'Enciclopedia Italiana, la Scuola Normale di Pisa. E dovunque agisse, riuscì ad allevare, come raccontava Luigi Russo, "nemici e ribelli al suo fascismo", fino a scendere in polemica con gerarchi temibili. Storico, ad esempio, il duello che ingaggiò con il quadrumviro Cesare Maria De Vecchi di Val Cismon, diventato nel ' 35 ministro dell' Educazione Nazionale. Fra i redattori della Treccani, erano in gran numero gli intellettuali avversi al regime: da Federico Chabod a Francesco Ruffini, da Arturo Carlo Jemolo a Ugo La Malfa, da Gaetano De Sanctis a Piero Sraffa. Poi, gli allievi di Gentile, alla Normale e fuori: Guido Calogero, Aldo Capitini, Delio Cantimori, Carlo Ludovico Ragghianti, Cesare Luporini, Adolfo Omodeo, Guido De Ruggiero, Tristano Codignola, Armando Saitta. Tutte persone che prenderanno strade diverse, approdando spesso all'antifascismo più radicale, lavorando per i pochi editori - Laterza, poi Einaudi - rimasti indipendenti.
Guido Piovene
Ma non tutti gli intellettuali sono Croce, D'Annunzio, Gentile. C'è gente di taglia minore o minima da cui il regime esige prestazioni umilianti. I più dignitosi (parlo degli scrittori) si chiudono nella torre d' avorio della prosa d' arte, o nell'ermetismo poetico. Altri, considerando il fascismo un male minore per un paese che nell'intimo disprezzano (viene in mente un Prezzolini) si riparano dietro un velo cinico-scettico, guardandosi bene dal "remare contro". Ci sono gli acrobati alla Malaparte, che s'impigliano nei meandri del regime, reclutandovi protettori e persecutori. Gli scanzonati alla Longanesi, che si trincerano dietro un perenne ius murmurandi. O i fascisti della prima ora che, in tempi di normalizzazione borghese, sfiorano, a forza di malignità, l'eresia. È il caso di Mino Maccari. Nel Selvaggio, il suo giornale, un antifascista di pura fede come Carlo Ludovico Ragghianti scoprirà motti moralmente preziosi. Come questo, riservato alla fascistissima Accademia d'Italia: "Dell'Accademia pria - scrisse per cortigianeria. - Or ch'è Eccellenza - scrive per riconoscenza". Oppure, senza reprimere uno sbadiglio: "Che seccatura - l'Istituto Fascista di Cultura". La burocrazia del regime, irrisa da Maccari, non si limita a organizzare conferenze e adunate letterarie. Scende nel concreto. Quando, nell' 86, è emersa dagli scantinati di palazzo Chigi una pila di documenti del Ministero della Cultura Popolare, si sono trovate le ricevute di contributi elargiti a scrittori anche insospettabili: Longanesi, Malaparte, Alvaro, Quasimodo, Ungaretti.
Corrado Govoni
Che repertorio di maschere umane può essere un regime dispotico! Vi si trovano gli anziani entusiasti come Giovanni Papini e i retori puri come Ugo Ojetti, sempre protesi sui colli fatali di Roma ad osannare le origini classiche del fascismo. Al polo opposto si scorgono i giovani, come Berto Ricci o Ruggero Zangrandi, che intraprendono un "viaggio attraverso il fascismo" dagli approdi imprevedibili e contrastanti. O si è colpiti dai fascisti irrequieti, come Vittorini o Pratolini, Gatto o Bilenchi, che compilano riviste di sapore oltranzista per provocare un regime di cui bramano il tramonto. La generazione allenata durante i Littoriali e quella allevata nelle riviste di Giuseppe Bottai (l'organizzatore di cultura più problematico e oggi più frequentemente rivalutato) fornirà molti nomi ai partiti di sinistra del dopoguerra.
Bruno Cicognani
A far più rumore sono, è ovvio, i trombettieri del Duce. Si esibiscono a comando. O anche senza. Chi costringe ad esempio, nei primi mesi del 1938, uno scrittore attempato e rispettato, Bruno Cicognani, a proclamare sul Corriere della Sera l'abolizione del "Lei" e l' imposizione del "Voi" nelle conversazioni e negli scritti degli italiani? Ne deriva una comica "campagna", che nessuno critica. Un poeta discretamente noto, Corrado Govoni, ha d'altronde espresso, in una poesia rivolta a Mussolini, il mistico piacere d'ingoiare tutto: "Non vogliamo conoscere - quali sono le ambiziose tue mire. - La voce del maschio comando - a noi basta di udire".
Giovanni Papini
L'effervescente diatriba intorno ai pronomi - Lei, Voi - è più viva che mai quando, nel novembre del '38, la Gazzetta Ufficiale pubblica il decreto legge che sancisce la persecuzione degli ebrei. L'opinione pubblica accoglie quei provvedimenti con scarsa simpatia. Ma nei circoli intellettuali un certo entusiasmo per la novità è innegabile. Ma si tratta davvero di una novità? Già sette anni prima Alberto Moravia, visitando Giovanni Papini, è stato accolto con una battuta sconcertante: "Lei collabora alla rivista Solaria. I solariani sono o zoppi, o ebrei, o omosessuali. Lei è tutte le tre cose". Moravia cercò di smentire, senza esito, almeno la terza circostanza. Ora intorno all'antisemitismo s'ingaggia una piccola gara d'obbedienza. Fra i più zelanti è Guido Piovene, autore d'una recensione entusiastica a un libro immondo, Contra judaeos di Telesio Interlandi. A suo parere l' opera soddisfa l'esigenza di "sentire d'istinto, e quasi per l'odore, quello che v'è di giudaico nella cultura". Nel suo La coda di paglia (1962) lo scrittore confesserà poi di aver aderito alle direttive fasciste "da schiavo, senza sentirsi mai partecipe". Nel '39, Amintore Fanfani sostiene in un saggio che "per la potenza e il futuro della nazione gli italiani devono essere razzialmente puri". A uno storico insigne, Gioacchino Volpe, la legge antiebraica sembra una tappa verso la costruzione di un'Europa "veramente solidale". 
Paolo Monelli
Giornalisti famosi esibiscono un antisemitismo "viaggiante". Dal ghetto di Varsavia ancora in piedi Paolo Monelli scrive: "Nulla ci pare di avere in comune con questa schiatta ebraica", di cui sono insopportabili "gli esotici costumi, i gesti paurosi, l'andare sbilenchi il più rasente al muro possibile". Malaparte, inviato in Cecoslovacchia, denunzia il pericolo sociale rappresentato dall'"enorme massa del proletariato giudaico". Giovanni Ansaldo scoprirà che sono stati gli ebrei a volere il conflitto mondiale: "i rabbi di New York, spingendo l'America alla guerra, hanno seguito la tradizione della razza". Poi ci sono gli ossessi. Per Mario Appelius, Israele è "traditore del mondo". Secondo Marco Ramperti, "più che dalla stella gialla gli ebrei si riconoscono dalla ferocia dello sguardo". Non tutti sono così. Nei ranghi fascisti, da Bottai a Marinetti, si registrano anche moderazione e dissenso. Ma ormai siamo in guerra. La voce del "maschio comando" ha tuonato per tutti, di razza "pura" o no.

“la Repubblica”, 9 maggio 1995

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