Una settimana fa, giovedì 28, per tornare a Perugia, in mancanza di tempestive prenotazioni, ho fatto un viaggio diverso dal solito. In bus da Licata a Roma Tiburtina, su un pullman della Salemi e poi da Roma a Perugia, in treno.
E sull’autobus sono passato da Gela intorno alle sei del pomeriggio, percorrendo uno stradone orribile, una sorta di circonvallazione che un tempo era ai margini della città e che adesso è al centro di una conurbazione informe e degradata. Per quella via, passando per la nuova stazione ferroviaria, che è ormai un rudere e non serve quasi a nulla, il torpedone da Macchitella, che era l’ordinato villaggio dei lavoratori Anic ed oggi non si sa più cosa sia, è arrivato alla statale per Catania. Da lì in poi quel che si vede oggi assomiglia a quello che si vedeva 35 anni fa, quando lasciai la città ove ero capitato per caso, sette anni prima, e dove la condizione umana, la civiltà e l’etica sembravano degradare giorno dopo giorno.
Quando si vuole dimenticare talora ci si riesce. Un tempo conoscevo per nome le contrade nelle vicinanze di Gela che quello stradale attraversa, ora non più: ho dovuto chiedere a un amico di fb. La zona è chiamata Pontolivo e dopo alcuni chilometri si è già vicini a Niscemi. La cosa è segnalata anche da un paio di striscioni gialli, belli, che dicono no al Muos, lo strano, mastodontico ordigno di controllo dell’etere che la Nato sta montando da quelle parti senza alcuna cura per la salute delle popolazioni. Li ho visti ben legati i teloni, della grandezza di un lenzuolo, e rumoreggiavano al vento forte e freddo di quel pomeriggio di marzo.
Il presidente della Regione siciliana Crocetta, che è di Gela, dopo un incontro con il governo Monti aveva deciso di bloccare i lavori. Ma, a quanto pare, gli americani proseguono imperterriti, senza darsi pena di divieti, né c’è la possibilità che a qualche autorità salti il ticchio di mandare carabinieri armati di tutto punto a far rispettare la sovranità italiana, come fece una volta Craxi nella non lontana base di Sigonella. I governanti di adesso, senza distinzioni, non sembrano avere un alto senso della dignità nazionale.
Nei paraggi, a sinistra per chi viaggia verso Catania, c’è una montagnola in vetta alla quale si erge una piccola costruzione medievale che i gelesi chiamano "castelluccio" e doveva far parte di un sistema di fortificazioni eretto da Federico II lungo la costa meridionale della Sicilia; e, a quella altezza, dallo stradale si diparte una carrozzabile di campagna piuttosto larga, forse diretta proprio al castelluccio.
Lì, a me che andavo guardando, si è presentato uno spettacolo forte, e mi ha turbato. C’è una cappella all’inizio della trazzera, non so dire se della Madonna, del Crocifisso o di qualche santo, e porta in alto la scritta PAX. Accanto ad essa è stata piantata - non so quando e perché - una bandiera nazionale che sventolava sibilando. Mi sembravano in netto contrasto e mi mettevano a disagio quella invocazione e quel tricolore. Che poi non era neanche di tre colori o di due colori e mezzo, essendo ormai il rosso che sta al margine ridotto da lacerazioni a una striscetta appena visibile. Bianco e verde conservavano le dimensioni originarie, ma anche quelle sezioni di bandiera comunicavano un’impressione di vecchio, trasandato e malaticcio.
Era proprio quella bandiera la cosa più urtante e deprimente: trasmetteva un senso di desolazione e rammentava la nostra povera patria, “battuta, lacera, corsa”. Ho pensato che a dare forza a questa nazione era stato proprio il rosso, il rosso dei garibaldini e degli operai, dei socialisti e dei comunisti. Ho concluso che con quel rosso ridotto ai minimi termini, quasi invisibile, è l’Italia che va in malora, perché ha perduto ogni speranza di redenzione, di resurrezione.
Lì, a me che andavo guardando, si è presentato uno spettacolo forte, e mi ha turbato. C’è una cappella all’inizio della trazzera, non so dire se della Madonna, del Crocifisso o di qualche santo, e porta in alto la scritta PAX. Accanto ad essa è stata piantata - non so quando e perché - una bandiera nazionale che sventolava sibilando. Mi sembravano in netto contrasto e mi mettevano a disagio quella invocazione e quel tricolore. Che poi non era neanche di tre colori o di due colori e mezzo, essendo ormai il rosso che sta al margine ridotto da lacerazioni a una striscetta appena visibile. Bianco e verde conservavano le dimensioni originarie, ma anche quelle sezioni di bandiera comunicavano un’impressione di vecchio, trasandato e malaticcio.
Era proprio quella bandiera la cosa più urtante e deprimente: trasmetteva un senso di desolazione e rammentava la nostra povera patria, “battuta, lacera, corsa”. Ho pensato che a dare forza a questa nazione era stato proprio il rosso, il rosso dei garibaldini e degli operai, dei socialisti e dei comunisti. Ho concluso che con quel rosso ridotto ai minimi termini, quasi invisibile, è l’Italia che va in malora, perché ha perduto ogni speranza di redenzione, di resurrezione.
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