Le carestie dall'antichità a oggi in un libro di Cormac Ó Gráda
Una storia delle carestie non può che partire da una definizione esatta del fenomeno: cosa distingue infatti una carestia da una condizione di fame e malnutrizione endemiche? Scrive Cormac Ó Gráda nella sua Storia delle carestie (Il Mulino, pp. 272, euro 24) che «un recente studio definisce la transizione da scarsità di cibo a carestia in termini di incremento del tasso di mortalità giornaliero oltre la soglia di 1/10.000, con una proporzione di bambini denutriti (...) sopra il 20%. Per lo stesso criterio, si ha "carestia grave" quando il tasso di mortalità giornaliero supera il livello di 5/10.000».
Il terrore della carestia è testimoniato nelle fonti da tempi remoti; anche se il criterio di misurazione moderno non si può certo applicare al passato, quando la percezione della gravità del fenomeno poteva basarsi su dati meno certi. Nella celebre definizione malthusiana, a lungo prevalente, la carestia è vista come una reazione della natura dinanzi a un aumento della popolazione non accompagnato da una sufficiente crescita della produzione; sebbene superata dallo studio del fenomeno, essa rimane presente nell'opinione pubblica e nei giudizi affrettati sulla crescita demografica contemporanea e le sue possibili conseguenze.
In realtà, come mostra Ó Gráda analizzando diversi episodi di carestia (quelle bengalesi del Settecento e dell'Ottocento sino alla carestia che nel 1943-44 mieté due milioni di vittime nella regione; quella sovietica del 1921-22; quella cinese 1959-61 e ancora molte altre), sebbene le cause naturali possano avere un peso, l'origine di una carestia dipende da fattori plurimi: difficoltà della distribuzione, scelte politiche, eventi militari e così via.
Insomma, l'immagine dell'Apocalisse è ben più di un simbolo: i quattro cavalieri del racconto biblico, la fame, la peste, la guerra e la morte stessa, procedono di pari passo nella storia, come coglie anche la scelta della copertina della Storia delle carestie, che ripropone proprio l'immagine tremenda dei Quattro cavalieri dell'Apocalisse nell'incisione di Albrecht Dürer.
Scrive Ó Gráda che ai nostri giorni le carestie sono un fenomeno se non debellato, quanto meno arginato. Il fatto che spesso si odano richiami ad accorrere in soccorso alle popolazioni a rischio di carestia risiede nel fatto che «chiedere solidarietà e finanziamenti per il singolo disastro è molto più facile che ottenere aiuti per affrontare la denutrizione o le malattie endemiche».
L'autore si mostra nel complesso moderatamente ottimista circa la possibilità che un mondo globalizzato sia in grado di difendersi dalle carestie. Ma a questo proposito si può forse notare come (è lo stesso Ó Gráda ad affermarlo) la malnutrizione grave sia invece ampiamente diffusa; e le sue conseguenze rappresentano in fondo una sorta di dilazione degli effetti della carestia, ma non sono meno distruttive per i paesi colpiti. Ci pare anzi che nuove forze nell'economia globale stiano spingendo in direzione opposta alla risoluzione di tali problemi.
Guardiamo alla storia recente: fra marzo e aprile 2008 è scattata una emergenza-cibo, dovuta all'impennata dei prezzi dei generi di prima necessità, che ha provocato moti sociali in diversi paesi. I fattori alla base della recente crisi sono principalmente quattro: il cambiamento climatico che, a prescindere dalle sue ragioni, ha causato raccolti scarsi; una quantità crescente di terre in passato utilizzate per prodotti agricoli destinati all'alimentazione viene oggi riservata a monocolture per la produzione di agro-combustibili; l'aumento del prezzo del petrolio ha reso più dispendiosi i trasporti, fra cui anche quelli di derrate alimentari; la crescita nel consumo di carne su scala mondiale, dovuta all'aumento della domanda da parte di paesi emergenti come la Cina, fa sì che sempre maggiori quantitativi di prodotti agricoli non vengano messi sul mercato per il consumo diretto, ma finiscano invece nell'alimentazione animale.
Il risultato complessivo dato dall'intreccio di questi fattori ha determinato un calo nelle riserve mondiali di generi di prima necessità, favorendo manovre speculative; il che ha portato anche alla decisione di alcuni paesi grandi produttori (come l'Egitto per il grano, ad esempio) a porre un freno alle esportazioni, innescando così ulteriori processi inflazionistici. Molte fra le scelte che hanno condotto a questa situazione sono frutto di politiche favorite dalle multinazionali.
I prodotti agricoli hanno, per definizione, uno scarso valore aggiunto: è cioè molto difficile far lievitare i prezzi oltre una certa soglia; per aumentare le rendite economiche le corporations che commercializzano il cibo, ormai ridotte a un cartello di poche imprese, hanno la possibilità di orientare il mercato verso le monocolture intensive, per esempio indirizzando verso la produzione in funzione dell'allevamento animale, più redditizio, e recentemente dei biocarburanti. Di qui la lotta contro la piccola proprietà privata, nel continente nordamericano come nei paesi in via di sviluppo, dove i governi sono più facilmente orientabili, soprattutto perché la World Trade Organisation impone loro l'attuazione di politiche neoliberistiche e contrasta il sistema delle scorte in nome della competitività e del liberoscambismo; norme che i paesi più deboli non hanno possibilità di contrattare, al contrario di colossi come gli Usa, l'Ue e il Giappone, che applicano misure protezionistiche sulla loro produzione: è il caso dei sussidi agli agricoltori in molti paesi dell'Unione Europea.
Negli ultimi decenni il governo indiano, servendosi dell'obiettivo dello sviluppo, ha espropriato terre coltivabili ai contadini destinandole alla produzione industriale e alle monocolture; i piccoli coltivatori che ancora resistono sono economicamente svantaggiati rispetto alle monocolture a più buon mercato, ma in tal modo l'autosufficienza alimentare, faticosamente raggiunta dal paese negli anni Settanta, diviene nuovamente un miraggio.
il manifesto, 6 settembre 2011
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