11.4.13

Papa Giovanni fuori dal mito (di Enzo Mazzi)

Don Mazzi, il prete fiorentino ribelle dell’Isolotto, attore e promotore nel 68 di contestazioni sociali e religiose che fecero scalpore, commenta la beatificazione di papa Giovanni nel corso del 2000, anno giubilare, contemporanea ad altre canonizzazioni (quella di Pio IX, per esempio). La interpreta come “mitizzazione”, come sottrazione alla storicità, e scopre che essa fa tutt’uno con l’abbandono delle dirompenti novità di quel papa e del Concilio che avviò. (S.L.L.)

La beatificazione di papa Giovanni non sfugge alla sorte comune a tutte le santificazioni, destinate a soddisfare e alimentare il bisogno di miti che mina tuttora la nostra cultura. In forme diverse dal passato ma ugualmente perniciose abbiamo bisogno di far emergere fatti e personaggi eccezionali, mitici appunto: eroi e martiri, santi e demoni, geni e profeti. Questi «creatori della storia» vengono isolati da quella che consideriamo la palude amorfa dei comuni mortali detti appunto i «senza storia», la loro figura è decontestualizzata, schematizzata e idealizzata, e proprio in questa dimensione convenzionale e mitica essi divengono modelli. La mitizzazione è fondamentalmente distruttiva perché soddisfa e alimenta il bisogno di separarci e allontanarci dalla miseria della vita reale, favorisce la divaricazione fra il sogno e la realtà, indirizza la ricerca di senso verso la emersione individuale contrapposta alla convergenza e alla socialità, ignora o sottovaluta i processi profondi, frantuma il divenire storico.
Il bisogno e la creazione di miti, in passato dominata dai poteri religiosi, oggi è sfruttata a piene mani e favorita dal liberismo.. Il nuovo «ordine» mondiale fondato sul dominio assoluto e globale del danaro ha bisogno di annullare l'identità della gente comune e ha necessità di distruggere la memoria generativa di tale identità per costruire automi smemorati e spaesati. Masse umane senza memoria e senza identità sono la creta informe e malleabile con cui viene creato l'uomo della nuova storia e il fedele della nuova religione: la storia del dominio del mercato globale e la religione del dio-danaro. I grandi leaders mondiali del momento servono proprio a questo: a creare spersonalizzazione e identificazione alienata. Perciò essi hanno tanto spazio nei media. Non importa ciò che dicono. Possono perfino gridare contro l'ingiustizia e incitare all'amore. L'importante è che grandi masse s'identifichino in loro e perdano il contatto con la propria identità e la propria storia. È il dominio del mito che s'insinua nella società secolare secondo modalità solo parzialmente diverse rispetto ai secoli passati.
La beatificazione-mitizzazione di papa Giovanni rientra in questo quadro. È impossibile con voci così afone come le nostre far qualcosa per favorire percorsi di demitizzazione. Ma per qualcuno, prima o poi, può avere comunque un qualche significato la contestualizzazione di papa Giovanni attraverso una testimonianza vissuta in prima persona.
Ai primi di novembre del 1958, il cardinale Elia Dalla Costa, l'arcivescovo di Firenze sospetto al Sant'Uffizio per il suo antifascismo e la sua apertura sociale, di ritorno dal Conclave venne a trovarci all'Isolotto, in una delle visite che ci faceva di frequente. «Abbiamo eletto un papa che vi piacerà» - ci disse con quel risolino ironico e ammiccante che addolciva i tratti austeri e taglienti del suo volto scavato. Poiché conosceva i suoi polli, aggiunse, fra una sorsata di caffè e l'altra: «Abbiate fiducia, aspettate e vedrete».
Aspettammo, ma sfiduciati. Già i trionfalismi dell’incoronazione ci avevano mal disposti verso questo papa. Presentava tratti di bonaria umanità, totalmente assenti dalla figura di Pacelli, ma mostrava, agli occhi di quanti si arrovellavano sulle frontiere del rinnovamento, una cultura tradizionalista e curiale, inadeguata se non contraria ai cambiamenti che si rendevano sempre più urgenti.
Vennero, poi, le mazzate. Nel dicembre 1958, un intervento vaticano vieta all'Università cattolica del S.Cuore di conferire la laurea honoris causa in scienze politiche a Jaques Maritain. Poco dopo, un ordine del Sant'Uffizio blocca la diffusione di Esperienze Pastorali di don Milani, fino a lambire lo stesso cardinale Dalla Costa. Agli inizi del 1959 viene allontanato da Firenze padre Ernesto Balducci. Il 4 aprile il Sant'Uffizio rinnova, con l'approvazione del papa, la condanna contro i comunisti, allargandola perfino ai cattolici che con i loro comportamenti «favorivano» il comunismo. Ancora nello stesso anno, il cardinal Feltin riceve dal cardinal Pizzardo, segretario del Sant'Uffizio, l'ingiunzione di chiudere definitivamente l'esperienza dei preti operai, creando drammatici casi di coscienza e ferite tutt’ora aperte. Il nuovo papa appariva un ostaggio della Curia vaticana. Si allontanava sempre più la prospettiva che ci aveva aperta il cardinal Dalla Costa.
Il clima negli ambienti dove si stava realizzando la gestazione del rinnovamento era di disorientamento. Ma non di scoraggiamento, perché mille segni ci dicevano che, nonostante il gelo vaticano duro e distruttivo, la primavera era in piena e inarrestabile fermentazione.
Lontani com'eravamo dalle stanze e dalle trame del potere, a diretto contatto con la gente più umile, immersi in una quotidianità che impegnava tutte le nostre energie intellettuali e materiali, ci sfuggiva il fatto che alcuni di questi segni di germinazione si annidavano nella coscienza e nei gesti minori del nuovo papa. Come l'abbraccio con cui papa Giovanni accolse l'eretico dissidente don Primo Mazzolari, in una pubblica udienza il 6 febbraio 1959, nello stesso momento in cui i vescovi italiani, Montini compreso, esigevano una condanna definitiva ed esemplare di Mazzolari e della sua rivista “Adesso”. Dalla Costa non aveva parlato invano quel giorno di novembre 1958 all'Isolotto e soprattutto egli sapeva quello che faceva quando aveva impegnato tutta la sua credibilità e la sua autorevolezza di papabile per favorire l'elezione di Roncalli. I due, Dalla Costa e Roncalli, non potevano però scoprire troppo presto le loro carte più preziose.
Carlo Falconi afferma in I papi del ventesimo secolo che «molto prima di diventare il 262° successore di Pietro, Roncalli era già in possesso di tutto l'esplosivo ideologico a cui avrebbe avvicinato la miccia (...) soltanto negli ultimi anni della sua vita». Ma noi come potevamo saperlo? Come potevamo pensare che un uomo così esplicitamente inviluppato nella tela del ragno potesse covare il colpo d'ala capace di liberarlo e di liberare con lui la Chiesa intera?
Anche la notizia che Giovanni XXIII aveva espresso l'intenzione d'indire un Concilio ci lasciò sulle prime indifferenti. Ritenevamo che un Concilio sarebbe stato egemonizzato dalla solita Curia che l'avrebbe usato come nuova occasione di trionfalismo, per ribadire il luoghi comuni del centralismo vaticano. Stava a dimostrarlo il fallimento del Sinodo Romano, il primo dell'epoca post-tridentina, del gennaio 1960, gran pompa ma senza alcun segno di apertura al nuovo.
Per concludere, si consolidava sempre più in noi la convinzione che la riforma della Chiesa non poteva in alcun modo venire dal centro o dall'alto. Diveniva sempre più chiaro che l'attuale struttura ecclesiastica, teocratica, centralista, autoritaria, imponente, ricca e alleata con i ricchi e potenti, era una fortezza-prigione impenetrabile, capace di annullare ogni buona volontà riformatrice. Il massimo che ci si poteva attendere era una «verniciatura dei sepolcri».
Del resto noi stessi, nel nostro piccolo, lo sperimentavamo. Il Vangelo lo vedevamo vissuto fuori dalle strutture ecclesiastiche, nei luoghi del non-potere, della insignificanza, della emarginazione, della povertà e della lotta contro l'ingiustizia. E noi, preti e laici, che tentavamo di aprire le parrocchie di squallide periferie o di sperduti paesi o di baraccopoli alla «creatività dello Spirito», cozzavamo sempre contro muraglie inamovibili. Non era solo questione di uomini; erano sbarre fatte di ruoli, leggi, riti, dogmi, catechismi, concordati, protezioni politiche, patrimoni, consuetudini....
La riforma della Chiesa in senso evangelico poteva venire solo dal basso, dalla periferia. La comprensione del Vangelo, il catechismo, la liturgia, la spiritualità, i beni materiali, le strutture decisionali, insomma tutta la struttura di vita dell'essere chiesa veniva progressivamente rovesciato. A lenti ma decisivi passi era collocato su un nuovo fondamento: la base, i poveri, gli handicappati, gli abbandonati, gli umili, gli operai. Le realtà nuove che nascevano si chiamavano non di rado, con termine equivoco, «comunità», e magari «comunità parrocchiali». Solo più tardi si affaccerà quel nome che ancora non è stato assorbito e travisato dalle istituzioni forti:  «comunità di base» che trovano il proprio fondamento nello Spirito che vive nella base, realtà protese alla sostanziale autonomia dalla struttura della parrocchia, della diocesi, della Curia vaticana.
Insomma eravamo «periferie» che si avviavano coscientemente a divenire soggetti storici della ineludibile riforma della Chiesa.
Papa Giovanni, ecco l'intuizione del cardinal Dalla Costa che più tardi, nella preparazione del Concilio, divenne chiara anche a noi, si trovava sulla stessa lunghezza d'onda: era un papa che ci sarebbe piaciuto. La carriera diplomatica aveva portato Roncalli a contatto con alcuni snodi storici cruciali del dopoguerra: la Bulgaria e la Turchia delle frontiere ecumeniche col mondo ortodosso e islamico, la Francia delle parrocchie missionarie e dei preti operai, l'Italia dell'opposizione all'assolutismo e all'anticomunismo pacelliano. Aveva preso coscienza di quanto la Chiesa intera avesse bisogno di essere fecondata dallo Spirito che soffiava forte nelle periferie e nella base. Intendiamoci: non era sempre d'accordo con le esperienze innovative che incontrava, ma avrebbe voluto paternamente indirizzarle, come un «buon pastore» che vuole evitare di trasformarsi in «organizzatore della vita collettiva», come ebbe a dire nel discorso dell'incoronazione. Presto però si accorse che dal centro poteva solo reprimere e soffocare. La riforma della Chiesa non poteva partire da lui. Non voleva essere un papa-riformatore. E concepì il Concilio proprio per rompere il centralismo romano, per far tacere i «profeti di sventura» e liberare le esperienze conciliari delle periferie, dando spazio ai «segni dei tempi». È emblematica la vicenda dello schema chiave della deliberazione conciliare riguardante le fonti della Rivelazione. Papa Giovanni sconfessò praticamente lo schieramento dei vescovi italiani, spagnoli, molti latino-americani, guidato dai potenti cardinali curiali con in testa Ottaviani, che con cavilli procedurali voleva imporre lo schema proposto dall'alto, e diede spazio alle istanze della periferia. Senza l'intervento diretto di papa Giovanni, in quel caso come in altri, il Concilio avrebbe preso un indirizzo ben diverso anzi opposto.
Ecco la convergenza che trovo fra la germinazione di tante esperienze conciliari e la coscienza profetica di Giovanni XXIII. Non emersione dunque, ma convergenza. Non un santo in più a farci sentire ancor più peccatori e insignificanti, ma un segno fra altri della santità (se così si vuol chiamare il valore profondo e positivo della realtà) del processo storico di riscatto e di emersione dei «senza storia», dei segni dei tempi.
Dobbiamo domandarci allora se santificare papa Giovanni, metterlo sugli altari, non voglia annullare questa convergenza, colpire ancora una volta questo processo storico, rendere ancor più insignificanti tutti noi che ci siamo dentro.

“il manifesto”, 5 settembre 2000

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