26.4.13

Torino 1920. L’anarchico Garino ricorda Gramsci e i Consigli di fabbrica.

Foto segnaletiche di Maurizio Garino. Dallo schedario dei questurini
Il testo che segue è parte della testimonianza di Maurizio Garino,  inserita in un libro collettaneo su Gramsci, curato da una nipote del grande pensatore e rivoluzionario marxista, Mimma Paulesu Quercioli, figlia di Teresina, la sorella prediletta di Antonio.  
Maurizio Garino, sardo come Gramsci, nacque nel 1892 nel sassarese e, trasferitosi a Torino, divenne operaio modellista. Anarchico, fu uno dei fondatori, nel 1911, del "Sindacato rivoluzionario metallurgico" che pochi anni dopo, per opera sua e di Francesco Ferrero, confluì nella Fiom. Dal novembre 1919 divenne uno dei massimi dirigenti della Fiom torinese e insieme a Ferrero, che ne era diventato il segretario, redasse il manifesto Per il congresso dei consigli pubblicato nel 1920 dall'“Ordine nuovo”. Nel ventennio fascista dovette affrontare persecuzioni e arresti. Nel settembre 1943 riorganizzò il movimento anarchico a Torino e prese parte alla Resistenza. È stato uno dei dirigenti dell'ANPPIA. È morto a Torino nell'aprile del 1977.
L’interesse della sua testimonianza è oggettivo e soggettivo. Le informazioni che comunica sull’occupazione delle fabbriche e il movimento dei consigli sono, infatti, di per sé interessanti al fine di individuare la natura di quel movimento e comprendere le tensioni che l’agitavano. L’interesse più grande riguarda tuttavia il punto di vista di Garino, operaio anarchico che resta tale e sottolinea, tutte le volte che ne ha occasione, le differenze da Gramsci, marxista e leninista, ma in grado di riconoscere senza settarismi un maestro; e riguarda infine la grande apertura di Gramsci al confronto nella classe, senza dogmatismi e chiusure di nessun tipo. (S.L.L.) 
Foto segnaletiche di Antonio Gramsci. Dall'archivio dei carcerieri 
… Allora il movimento anarchico era presente nella città con un gruppo organizzato in tutte le "barriere." Non solo, ma partecipavamo ai dibattiti nei circoli e soprattutto collaboravamo nel sindacato dove si era realizzata una unione sacra tra noi e gli altri compagni.
Dalla commissione uscirono tre tesi sui consigli di fabbrica. Una di Gramsci, una di Tasca e una portata da me. Queste tesi furono discusse nei congressi della Camera del lavoro di Torino e anche nazionalmente. Io, per esempio, esposi la mia al congresso di Bologna del 1919 nel quale si fondò la FAI. Intanto i consigli si realizzavano in ogni fabbrica in un processo di assorbimento e di trasformazione delle commissioni interne e furono la base di partenza per l'occupazione del 1920.

L’occupazione delle fabbriche
Gramsci era al centro, era il perno di questa elaborazione. Prima attraverso 1’ “Ordine nuovo” settimanale, poi con l' “Ordine nuovo” quotidiano egli diede vita a questo grande movimento. Devo dire che per quanto riguarda la volontà di lotta e di sacrificio e lo spirito di solidarietà tra gli operai si raggiunse veramente il massimo.
Ma non si riuscì ad andare oltre l'occupazione. Dopo un mese trascorso in fabbrica, giorno e notte con le armi in pugno, gli operai erano snervati. L'occupazione era sostenuta da tutte le forze di sinistra e da Gramsci, ma nella direzione del Partito socialista — della quale faceva parte l'amico Terracini, che si trovò prigioniero di una situazione — e nel consiglio della Confederazione del lavoro — di cui facevano parte i riformisti, ma anche Buozzi — prevalse la convinzione che questo grande movimento si basava unicamente su rivendicazioni di carattere sindacale.
Si palleggiarono le responsabilità, si giunse al convegno di Milano, e alla fine prevalse la tesi dei riformisti. Noi di Torino, che eravamo all'estrema sinistra, fummo bloccati. Ad ogni modo andammo a Milano dove il convegno della FIOM doveva sanzionare la deliberazione della Confederazione e ci battemmo ancora sino in fondo.
In quella occasione vidi piangere Buozzi, che mi chiamò fuori dalla sede della riunione, nel cortile dell'Umanitaria, e mi disse: "Devi accettare questa soluzione, ormai non possiamo più resistere." Io avevo un peso sullo stomaco! Sapevo che davvero gli operai erano stanchi, ma risposi che non potevo rinunciare. Perché ero convinto di quanto Malatesta mi aveva detto in un colloquio il giorno avanti: "Se cederete, verrà il fascismo."
A proposito della occupazione delle fabbriche voglio raccontare un episodio. Fu per me, per tutti noi, assai doloroso perché si trattava di riconsegnare la Fiat ai padroni dopo la lotta. Segretario del consiglio di fabbrica era Giovanni Parodi, che tenne un discorso molto preciso, fiero. Quando finì di parlare il senatore Agnelli rispose riconoscendo che gli operai che avevano occupato le fabbriche si erano comportati in modo civilissimo e che la direzione aveva trovato gli impianti in piena funzione e intatti.
Fuori c'era una massa di operai, purtroppo sconfitti. Quando usci Ferrero, che era con me, lo acclamarono ancora come segretario della FIOM, dimostrando un grande coraggio e una grande dignità. E fu l'ultimo atto dell'occupazione delle fabbriche al quale partecipai.
Poi vennero le conseguenze; drammatiche per i migliori che si erano esposti in quel periodo. Ci furono licenziamenti, arresti, processi…

Tre tesi
I consigli di fabbrica avevano aperto i cuori degli operai a grandi speranze; anche durante l'occupazione, all'interno delle officine, si erano tenuti intensi dibattiti. Si discutevano le tre tesi a cui ho già accennato.
La tesi di Gramsci era questa: noi costituiamo i consigli perché la classe operaia impari ad amministrare e a dirigere le proprie fabbriche, il processo produttivo. Ogni reparto deve nominare un commissario (oggi si chiamerebbe delegato) che appartenga a un gruppo omogeneo della produzione in modo che in assenza di una direzione padronale sia in grado di dirigere il proprio reparto. Questi commissari, attraverso l'acquisizione di una cultura politica, giungeranno a comprendere il grande valore di una società basata sui produttori stessi, al di fuori di ogni forma burocratica. Insomma — sosteneva Gramsci — il consiglio di fabbrica deve essere anche un organo di cultura. La tesi di Tasca era invece quella che sosteneva che il consiglio di fabbrica è pura e semplice emanazione del sindacato. La mia tesi, infine, vedeva nel consiglio di fabbrica non solo uno strumento per preparare i futuri dirigenti della produzione, ma anche un organismo di preparazione della rivoluzione sociale.
Dopo l'intenso dibattito sui luoghi di lavoro, nei congressi, nei circoli, la tesi di Gramsci e la mia si fusero e, da quel momento, si intensificò la collaborazione fra le diverse tendenze del sindacalismo e della politica nella sinistra torinese.
L'occupazione delle fabbriche avvenne con l'adesione quasi unanime delle masse operaie interessate in questo movimento. Gli operai torinesi, sotto la guida di Gramsci, avevano maturato una coscienza di classe; erano maturi per la creazione di una società socialista.
Se questo non avvenne è perché ci fu l'intervento di altre forze e di altre circostanze. Soprattutto perché Giolitti riuscì ad accordarsi con i riformisti della Confederazione del lavoro e a indurli a firmare un contratto in cui si parlava anche del controllo delle fabbriche da parte della massa operaia. Il che non avvenne, mentre invece si attuarono i licenziamenti voluti dagli industriali.
Ricordo che dalla sola Fiat più di duemila operai furono licenziati per rappresaglia.

La dittatura del proletariato
Parlare di Gramsci per me significa rievocare i più bei ricordi. Le discussioni che ho avuto con lui mi sono state di grande insegnamento, anche se sono rimasto fedele ai miei principi.
Per esempio, sull'argomento della dittatura del proletariato non ho potuto convincermi. Anzi, voglio raccontare un piccolo episodio, a questo proposito. Un giorno mi trovavo nello sgabuzzino che Gramsci occupava come direttore dell'“Ordine nuovo” e discutevo con lui. Fra gli altri argomenti si affrontò anche quello della dittatura del proletariato.
Naturalmente Gramsci spiegò con molta pazienza che non si doveva intendere la dittatura del proletariato come una dittatura qualunque, come una dittatura personale tipo quella di Napoleone, ma come una presa di coscienza di una classe che si impadronisce del potere e che impedisce ai suoi nemici, i borghesi, di rialzare la testa. Cosi facendo la classe operaia fa in modo che i postulati del socialismo siano messi in pratica. Una rivoluzione non è mai indolore — spiegava —, qualche privilegio deve cadere. Quando la classe operaia conquisterà il potere non si tratterà più di una vera e propria dittatura, ma di impadronirsi delle leve di comando per realizzare il socialismo.
Naturalmente io, da un punto di vista anarchico, negavo tutto questo. Dissi: "Sul resto possiamo essere d'accordo, caro Gramsci, ma su questo punto no. Anche le dittature collettive a poco a poco possono trasformarsi in dittature di un gruppo di uomini e quindi limitare la libertà." E perché il mio ragionamento fosse più incisivo aggiunsi: "Se domani in Italia si instaurasse una dittatura, chiamatela come volete, i primi ad essere fucilati saremmo noi perché siamo contro lo Stato politico..."
Gramsci non mi lasciò finire, si alzò in piedi di scatto, si mise le mani nei capelli, disse: "No, no, non dire questo, Garino, non sarà mai cosi, non è possibile, sei fuori strada!" Ci lasciammo come al solito da buoni amici, ma ognuno rimase con le proprie opinioni.

Un maestro in cui specchiarsi
Avemmo molte altre occasioni per discutere. Ad esempio, durante l'occupazione delle fabbriche mi sono trovato spesso accanto a Gramsci. Lui, l'intellettuale preciso, dalla voce quasi sommessa (per poterlo seguire bisognava fare molta attenzione) e io irruente, che improvvisavo i miei discorsi. Parlavamo insieme agli operai e qualche volta, di domenica, anche alle loro famiglie. Infatti nei giorni festivi si organizzarono in fabbrica anche dei trattenimenti per i familiari degli occupanti.
Un maestro, era, Gramsci. E quale maestro!
Chi l'ha fatto morire ha spento una delle intelligenze migliori di quel tempo. Gobetti era capace e preparato, ma Gramsci superava tutti.
Gli operai gli erano naturalmente affezionati, lo consideravano un fratello e chiunque di noi avrebbe dato la sua libertà per lui. Non bisogna pensare che ci fossimo creati un idolo, no, questo era contrario al nostro modo di pensare. Ma in lui ci specchiavamo, la sua presenza ha illuminato quel periodo che è stato il più importante della nostra vita di militanti operai…
Noi eravamo più giovani di lui, ma soprattutto eravamo cosi lontani da lui come cultura che tutto quanto egli diceva ci interessava. Poi le sue affermazioni diventavano, ogni volta, oggetto di studio e di meditazione. Se qualche volta non giungevamo a capirlo, lui con una pazienza infinita parlava ancora, entrava in tutte le pieghe del discorso e ci faceva comprendere, per farci toccare con mano ciò che era giusto.
E questo successe molte volte. Ogni volta che sorgeva un dubbio, bisognava chiarirlo; perché la chiarezza era alla base delle sue idee.
Quando si facevano dei comizi nelle fabbriche, soprattutto durante l'occupazione, e lui aveva finito di parlare, gli operai gli si raccoglievano intorno per sentire ancora, per comprendere meglio, per farsi spiegare. Parlava anche di argomenti di lavoro, per esempio sui rapporti tra operaio e caposquadra, fra caposquadra e dirigente, e spiegava gli ingranaggi che il capitalismo mette in opera allo scopo di sfruttare meglio la classe operaia. Poi arrivava ad esporre gli obiettivi generali del socialismo, del comunismo.
Stava in mezzo a noi, e poiché era piccolo, facevamo largo attorno alla sua persona e con le orecchie tese ascoltavamo senza perdere una parola di quanto diceva. Forse, allora, molti non avevano compreso il valore di Gramsci; ma noi operai sì, avevamo coscienza di tutto il suo valore…
Per quanto concerne il movimento anarchico, anche attraverso gli scritti sull'“Ordine nuovo”, Gramsci dimostrò sempre di apprezzarne la collaborazione nei sindacati e nei consigli di fabbrica. Naturalmente ci sono diversità tra le nostre teorie.
Per concludere, io penso che se Gramsci fosse vissuto le cose in Italia sarebbero andate diversamente. Perché la coscienza che aveva impresso nella classe operaia della mia generazione era matura per fare grandi passi in avanti. Il fascismo aveva compreso che lui era il grande ostacolo da eliminare e lo tolse ai suoi compagni, lo fece morire.
La forza, l'unità, lo spirito combattivo dei partigiani, soprattutto dei partigiani operai, derivò e deriva ancora dallo spirito che Gramsci aveva impresso al tempo dei consigli di fabbrica nella massa operaia torinese. Perché da essa sono usciti i migliori comandanti, i migliori partigiani della guerra di liberazione che, nello spirito di unità di Gramsci, hanno saputo raggruppare attorno a sé giovani di tutte le provenienze sociali e li hanno uniti nell'ideale di combattere il fascismo come mostro sociale, come nemico della classe lavoratrice.
Lo stesso spirito di unità che ci accomunò nelle lotte operaie dal 1917 al 1922 e nei consigli di fabbrica.

In Gramsci vivo nelle testimonianze dei suoi contemporanei, Feltrinelli, 1977

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