Per i 200 anni dalla nascita l’articolo che segue, di Francesco Cassata, demistifica alcune delle falsificazioni che hanno fatto di Darwin il padre del nazismo. Il pezzo è utile e interessante. (S.L.L.)
Da Darwin a Hitler, passando per l'eugenica nazista e il razzismo: mai una genealogia tanto sbagliata ha conosciuto così notevoli fortune. Non si sta parlando di un passato remoto, degno dell'Urss di Lysenko. La nazificazione del darwinismo è ben viva ancora oggi, affolla le pagine dei giornali e del web, dà il titolo a saggi storiografici. Soltanto alcuni mesi fa, dalle colonne dell'“Avvenire”, il celebre teologo protestante Jurgen Moltmann tuonava contro gli «esiti mortali» dell'evoluzionismo darwiniano.
Ma quale distorsione anacronistica può sorreggere una tesi che fa della teoria della selezione naturale una sorta di proto-fascismo, sintesi di eugenica, razzismo e imperialismo capitalistico? Il primo passo falso consiste nella semplificazione e banalizzazione cui vengono sottoposte le categorie di «darwinismo sociale» e di «eugenica», utilizzate comunemente come sinonimi di «imperialismo», «razzismo», «nazionalsocialismo».
La storiografia ha da tempo illuminato una realtà ben più complessa. Tralasciando l'origine polemica e dispregiativa del termine «darwinismo sociale», occorre ricordare che in questa categoria rientrano storicamente non soltanto i cantori del liberismo senza freni, ma anche i fautori della cooperazione e del «mutuo soccorso», dagli anarchici russi ai progressivists americani; non soltanto i sostenitori della guerra fra popoli, nazioni, razze, ma anche molti illustri antimperialisti e pacifisti; non soltanto i «darwiniani», ma più spesso gli «spenceriani» e i «lamarckiani». E lo stesso discorso vale per l'eugenica: eugenisti si dichiaravano non soltanto i reazionari antisemiti, razzisti, sessisti, classisti ecc., ma anche i sostenitori del controllo delle nascite, dell'aborto, del free love, dell'eguaglianza fra gli individui, dell'emancipazione del proletariato: dalle prime femministe ai socialdemocratici tedeschi e svedesi, dai fabiani britannici ai bolscevichi russi, fino ai comunisti francesi del Fronte Popolare.
Per rispondere ai «terribili semplificatori» non basta, tuttavia, respingere la reductio ad Hitlerum del darwinismo sociale e dell'eugenica. Occorre piuttosto immergersi nel clima culturale della Gran Bretagna vittoriana e tornare a leggere le opere teoriche di Darwin (in particolare L'origine dell'uomo e la selezione sessuale, la cui prima edizione è del 1871), per capire se, e in quali termini, il naturalista di Shrewsbury possa essere considerato un darwinista sociale e un eugenista. E' nel cuore stesso dell'antropologia darwiniana che si colloca, infatti, la critica più radicale all'analogia nazificante, in quel principio che il filosofo Patrick Tort ha definito l'«effetto reversivo dell'evoluzione». Questo concetto esprime, nell'Origine dell'uomo, il passaggio dalla sfera della «natura», basata sulla ferrea legge dell'eliminazione dei meno adatti, allo stato sociale della «civilizzazione», in seno al quale si generalizzano, su basi etiche e istituzionali, quelle facoltà intellettive, sociali e morali che si oppongono al libero gioco di questa legge. L'apparente paradosso è facilmente riassumibile: la selezione naturale, attraverso la selezione degli istinti sociali e in particolare del sentimento di simpatia, produce il suo contrario, innescando una tendenza reversiva la quale conduce a uno stato di «civiltà», le cui regole escludono - in nome della ragione, della morale e delle istituzioni - i comportamenti eliminatori. Nessun dubbio sul fatto che Darwin, un intellettuale esponente delle classi elevate della Gran Bretagna vittoriana, condividesse l'ansia eugenetica di un'élite preoccupata di essere travolta dall'incremento riproduttivo dei «poveri» e dei «negligenti». In un passaggio fin troppo citato dell'Origine dell'uomo, Darwin rimprovera alla specie umana di essere «così' ignorante da permettere che i propri peggiori animali si riproducano». Ma, nelle righe successive, aggiunge una frase che molti hanno dimenticato: l'effetto «indubbiamente cattivo» della sopravvivenza e della riproduzione dei «membri più deboli e inferiori» deve essere accettato, proprio sulla base di quell'«istinto di simpatia», che rappresenta «la parte più nobile della nostra natura». A differenza di quanto sosterrà Francis Galton - il cugino che, alcuni anni dopo, conierà il termine eugenics - per Darwin non è necessario un intervento selettivo artificiale che si affianchi al meccanismo della selezione naturale. Indubbiamente esistono, secondo Darwin, alcuni istituti sociali e culturali - l'esercito, la primogenitura, l'inalienabilità, il celibato ecclesiastico, il controllo delle nascite - che limitano l'aperta competizione fra tutti gli uomini e la libera affermazione dei talenti. Tuttavia, nel discorso darwiniano, le relazioni della «vita civilizzata» sono sempre complesse e gli ostacoli frapposti alla selezione naturale conoscono sempre dei «freni di compensazione». Una volta identificato il «progresso» come un fattore dipendente «dall'incremento dell'attuale numero della popolazione, dal numero di uomini dotati di elevate facoltà intellettuali e morali e dal loro livello di eccellenza», e' la stessa azione della selezione naturale a garantire maggior successo riproduttivo ai piu' dotati fisicamente, intellettualmente e moralmente. Da buon whig, Darwin rifiuta l'idea di un intervento coercitivo dello Stato in materia di riproduzione, ma auspica che l'aumento delle conoscenze in materia di ereditarietà possa convincere l'opinione pubblica dell'opportunità dell'eugenica: «Quando i princìpi della procreazione e della ereditarietà saranno meglio conosciuti, non udiremo alcuni membri ignoranti della nostra legislatura respingere con disprezzo un piano che tende ad accertare se il matrimonio tra consanguinei sia, o meno, dannoso all'uomo». Parole «utopiche» in quel momento, secondo Darwin. Ma pronunciate da un uomo che aveva sposato la cugina e che fu sempre tormentato dall'idea di poter trasmettere malattie ereditarie ai propri figli. Un'ansia che non gli impedì di generarne ben nove.
“La Stampa”, 8-02-2009
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