Da “A sud’europa”, rivista on line del Centro Studi Pio La Torre, riprendo gran parte dell’introduzione di Franco Nicastro al libro Era l’ora (di Nicastro e Figurelli), che ricorda fatti e protagonisti della stagione d’oro del quotidiano palermitano, quella di Vittorio Nisticò. (S.L.L.)
«Ci rivediamo a Palermo», mi promise al telefono. Doveva essere l'estate del 2007. Lo spirito era sempre gagliardo, umore fresco ma il timbro della voce era molto affaticato. E l’ironia di una volta svelava adesso una vena sottile di rassegnazione. Quasi di disarmo. Da quel momento fu solo Jole a rispondere e io non riuscivo più a chiamare per sapere quello che in fondo era abbastanza chiaro. Con Vittorio Nisticò si è chiusa la stagione irripetibile di un giornalismo che coniugava tensione morale, coraggio, curiosità intellettuale, rigore professionale: era questo il cemento ideale che ha tenuto insieme sin dall’inizio tre generazioni di giornalisti. Qualcuno non c'è più ma tanti altri sono in giro per il mondo e nelle redazioni delle grandi testate. Dove continua il percorso di un'esperienza che è cominciata e si è consolidata nello stanzone a vetri del palazzetto di piazza Napoli, il cuore pulsante del giornale “l’Ora”.
Quando vi entrai in punta di piedi avvertivo un senso di inadeguatezza rispetto alla sfida che avevo davanti. Per me, che venivo dall’estremo lembo della Sicilia orientale, Palermo era il centro del mondo. E “l’Ora” il punto di incontro con una realtà immaginifica, misteriosa, affascinante. Mi chiedevo continuamente: saprò mai superare la prova e questo sacro terrore del mito? Eppure non potevo considerarmi proprio un estraneo. Ricordo ancora emozione che mi prese a 19 anni quando, aprendo il giornale appena arrivato nelle edicole di Vittoria, vidi che un mio articolo sui costi umani per la salute del lavoro nelle serre occupava più di mezza pagina e portava in testa come un marchio di fabbrica la formula fatidica: "Dal nostro corrispondente". E c' era pure, nella prima edizione, il richiamo in prima pagina. Mi sentivo già di casa. Le selezioni dei nuovi arrivati che speravano di diventare "biondini", cioè precari invisibili ma sempre presenti e preziosi, erano spietate. E tutti quelli della mia generazione siamo passati attraverso le forche caudine di esami senza appello e di adattamenti di ruolo pur di restare aggrappati a una zattera perennemente vagante e in procinto di andare a fondo al minimo soffio di vento. Presto trovai però i miei punti di riferimento e il passo giusto per calarmi nel clima di un giornale che era prima di tutto un collettivo straordinario e poliedrico dove ognuno riusciva alla fine a trovare il posto più adatto.
Le differenze contavano, eccome se contavano, e anche le gerarchie. Ma c' era in tutti noi una forte spinta ideale, il senso di una missione che coincideva con idea di un giornalismo di opposizione: schierato, orgoglioso, arrogante, nemico del conformismo e del potere. E perciò libero, e perciò autonomo. Questa era la lezione che il gruppo storico del giornale (Mario Farinella, Aldo Costa, Marcello Cimino, Giuliana Saladino, Etrio Fidora, Gianni Lo Monaco, Kris Mancuso, Salvo Licata, e mi scuso per le omissioni) ci affidava giorno per giorno, anche se in certi casi non potevi sottrarti a una subalternità pedagogica.
Sembrava che quel giornale prendesse forma nella frenetica routine quotidiana ma in realtà tutto era pensato, organizzato e controllato nella stanza che Nisticò presidiava come un fortino. Lui era il burbero padre-padrone che ti chiedeva tutto e non ti concedeva nulla, che ti spiegava in forma didascalica come cercare e trattare la notizia, come scovarla usando ogni risorsa critica negli anfratti dell’ufficialità e dietro le versioni accomodate. In quei colloqui surreali, nei quali dicevi sempre sì, ci diede gli strumenti e il metodo di un giornalismo moderno, laico, impegnato nelle battaglie civili e politiche, aperto al confronto e pienamente coinvolto nel dibattito culturale.
Noi ragazzi eravamo testimoni partecipanti di quella temperie ma solo dopo che la bottega artigianale di Nisticò ha chiuso i battenti abbiamo avuto una consapevolezza più precisa di ciò che ha rappresentato il giornale l’Ora di quegli anni. Il vero riconoscimento del suo prestigio veniva prima di tutto dagli altri: dagli intellettuali che scrivevano e venivano cercati, coinvolti, intervistati, dagli inviati della grande stampa che arrivavano in redazione a compulsare, curiosi e ammirati, archivio del giornale per ripescare e raccontare quello che era stato già scritto.
La storia di quel piccolo grande giornale che da Palermo riusciva a parlare all’Italia intera ha affascinato anche il cinema. E per noi era un' emozione indicibile incrociare nel corridoio o nella stanza della cronaca personaggi dello spettacolo, registi come Francesco Rosi, artisti come Renato Guttuso e Bruno Caruso, scrittori come Leonardo Sciascia che veniva timido e compunto a portare il pezzo da pubblicare con la firma in testa in corpo 18, miti del giornalismo nazionale e internazionale, mostri sacri della cultura, apostoli delle lotte non violente come Danilo Dolci.
Una testata che non aveva paura della verità
E noi giovanotti pieni d'entusiasmo eravamo pronti a rendere omaggio a tutti in ogni ruolo, anche quello di autista come mi capitò quando a casa di Marcello Cimino e Giuliana Saladino, dove ero appena arrivato, mi fu chiesto di accompagnare in albergo un certo Norman Lewis del quale sul momento mi era sfuggito il nome pronunciato in un inglese molto stretto. E solo alla fine, salutandoci davanti all’hotel delle Palme, riuscii a collegarlo allo scrittore inglese che aveva voluto un intervento di Marcello nel suo libro Onorata società, uno dei primi a raccontare e ricostruire il collegamento tra la mafia e la società meridionale.
Quest' incontro risale magari a qualche anno dopo - era il 1989 e Marcello non usciva più di casa aspettando il congedo dal mondo - ma certi curiosi percorsi e certi straordinari incroci venivano da lì, dal palazzetto di piazza Napoli. Nisticò ci ha lasciato tanti ricordi e anche eredità ingombrante di quella che Vincenzo Consolo, un altro caduto nelle grinfie di quel "mostro", chiama la "bella stagione".
Lui ne condivise un lungo tratto come firma della cultura e per un po' si fece trascinare nel territorio della cronaca con il compito di arricchirne la narrazione con i suoi resoconti corsari. E meno male che Nisticò ci ha lasciato anche un bel libro di memoria per raccontarci ciò che in quegli anni accadeva in Sicilia dentro, fuori e attorno a “l’Ora”.
Accadeva che una rivolta autonomista aveva portato al governo della regione Silvio Milazzo mandando la Dc all’opposizione. In quella operazione, comunque la si voglia giudicare, il giornale ebbe un peso determinante e fu molto esposto: la sfida della modernità passava attraverso l’idea che la "rivolta" di Milazzo offrisse finalmente un approdo democratico alla travagliata stagione autonomistica, una via d' uscita all’immobilismo centrista, una risposta ai sogni di uno sviluppo in chiave siciliana.
Accadeva che la mafia stava cambiando pelle. Lasciava il feudo e si trasferiva in città per collegarsi alle cosche e agli uomini che già la presidiavano e si davano battaglia per controllare i grandi traffici e i grandi mercati. Entrava nel mondo degli affari, promuoveva con Salvo Lima e Vito Ciancimino il "sacco" di Palermo e abbatteva le ville liberty per dare spazio alla speculazione del cemento. Dietro si lasciava una scia di sangue e di terrore. “L’Ora” seppe riconoscere subito trasformazioni, obiettivi, capi emergenti. Parlava di mafia e ne raccontava esercizio quotidiano della violenza mentre altri ne negavano esistenza anche nei sacri palazzi. Oppure prendevano la scorciatoia dell’indifferenza. E ne ricavò segnali terrificanti. Come la bomba che nell’ottobre 1958 arrivò nel pieno di una memorabile campagna giornalistica: la prima vera inchiesta sulla mafia che dava, e ancora dà, "pane e morte".
Inchieste che hanno fatto la storia d’Italia
La risposta fu secca e coraggiosa. Si legge nel titolo del 20 ottobre 1958: "La mafia ci minaccia, l’inchiesta continua". E sarebbe continuata per tanto tempo ancora. Oggi lo chiameremmo, con qualche cedimento nostalgico, giornalismo d' inchiesta. In realtà era un giornalismo che non ha bisogno di alcuna qualificazione perché corrisponde al modello classico di un' informazione che non è liquida, resta ancorata ai fatti e ne coglie il senso andando oltre la superficie e le apparenze. Ma soprattutto non si appiattisce sull’egemonia delle fonti. Per questa coerenza che oggi è molto difficile spiegare e ancora più difficile comprendere “l’Ora” pagò un costo intollerabilmente alto. Il potere scaraventò su Nisticò ogni sorta di ostilità. Ma ne era così colpito, e addirittura intimidito, che qualche volta veniva a rendergli omaggio direttamente nella tana del lupo. Le querele arrivarono a decine.
Tre giornalisti che hanno pagato con la vita
Etrio Fidora fu l’unico giornalista a subire, e il '68 c' era già stato, non solo una condanna ma anche la sospensione dalla professione. "Sentenza assurda e contro l’etica di questo mestiere" la giudicò Indro Montanelli. Ma c' è chi pagò un prezzo ancora più duro. Nel 1960 il corrispondente da Termini Imerese, Cosimo Cristina, fu eliminato con modalità straordinariamente simili a quelle
usate per uccidere Peppino Impastato. Nel 1970 scomparve Mauro De Mauro. E due anni dopo fu assassinato Giovanni Spampinato che aveva trasferito in provincia il modello giornalistico dell’“Ora”.
L’eco di quelle tragedie si ritrova nelle prime pagine del giornale. Aiutateci invocò dopo la scomparsa di De Mauro. Ucciso perché cercava la verità titolò per denunciare eliminazione di Spampinato.
“L’Ora” era un giornale di battaglia che aveva nel più grande partito di sinistra il suo editore di riferimento. Apparteneva alla schiera dei giornali "fiancheggiatori", come “Paese Sera” … che avrebbero esaurito il loro ruolo proprio a metà degli anni Settanta …quando la direzione di Nisticò, cominciata nel 1954, arrivò al capolinea. Ma l’autonomia della linea editoriale era un connotato molto forte di quell’esperienza. E Nisticò la difendeva con brutale fermezza anche nei confronti dei dirigenti del Pci. La sua libertà, e quella della redazione, era fondata, come ci ha ricordato nel suo libro, sulla «assoluta priorità del ruolo professionale e dei valori del giornalismo». Ma forse quel senso orgoglioso di autonomia professionale, costantemente e ostinatamente esercitato, si accompagnava a processi più complessi e perfino più ricchi di stimoli intellettuali. A Michele Perriera, uno dei giovani di seconda generazione, apparivano cruciali almeno altri tre fattori: «il sentimento della propria necessità politica e culturale; il sentimento della propria missione sociale; il sentimento della unicità dell’esperienza siciliana, intesa non come fenomeno marginale e provinciale, ma come frontiera di un vastissimo orizzonte di trasformazione e di riscatto».
Di quel processo “L’Ora” era un punto di riferimento per il cambiamento nel quale la sinistra aveva investito tante energie. E impegno antimafia non esprimeva "solo" un grande valore civico ma la consapevolezza che nella società siciliana e in quella meridionale il potere mafioso, con il suo devastante reticolo di interessi intrecciati con la politica, fosse un grave ostacolo per lo sviluppo e per il futuro di una Sicilia moderna. Questo ruolo il giornale esprimeva senza le scorciatoie moralistiche ma con il linguaggio concreto della cronaca, dell’inchiesta e, perché no, della denuncia.
Tutto questo era la scuola di Nisticò: la bottega artigianale dove si modellava un giornalismo che ha portato la Sicilia in un quadro nazionale. Dove il rapporto con le fonti passava attraverso un filtro critico così rigoroso che a volte rischiava di diventare uno schermo ideologico. Si può dire che in quegli anni immagine dell’“Ora” era molto vicina al ruolo di contropotere rivendicato dal giornalismo americano ma proprio per questo il potere rovesciò su quel grillo parlante della periferia italiana un fiume di veleni, incredibili teoremi, perfino macchinazioni poliziesche.
Il culmine arrivò con il caso De Mauro. Si mise in moto un'operazione a tenaglia: da un lato si cercò di riportare dentro il giornale la responsabilità di quella misteriosa scomparsa, quasi che avesse ordinata il direttore, e dall’altro i servizi segreti non esitarono a reclutare giornalisti di nome, personaggi in cerca d'autore e avvocati a libro paga per promuovere una colossale opera di depistaggio. Com'era accaduto nel 1958 anche allora il giornale seppe raccogliere la sfida, e uscirne quasi indenne. La sua indipendenza era salva ma la sua sopravvivenza ormai compromessa. Il declino inesorabile era appena cominciato. Aveva tante cause, non ultima il disastro gestionale di un'impresa che non era mai diventata azienda. Ma il valore di quella scuola e di quella formidabile esperienza è facile riconoscerlo. Oggi più che mai.
“A sud’europa”, Anno VI N.25 – giugno 2012
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