10.4.13

Ernesto Ragazzoni. Pernacchie al Werther (di Massimo Raffaeli)

Ritratto di notabile (Dionigi Bussola),
Cappelle del Sacro Monte di Orta,
Particolare dalle sculture policrome
La catastrofe di Nietzsche a Torino si concluse col bacio che il filosofo stampò sulla bocca di un cavallo aggiogato a una vettura pubblica. Va anche detto che Torino, chiusa allora nelle severe prospettive di Guarini, poteva ancora dirsi una piccola Parigi: al filosofo piacevano, infatti, i portici di via Po, i caffè concerto a prezzi modici, e le straordinarie confetterie. Se nelle dimensioni della mole e della Gran Madre di Dio allucinava il culmine vitale di Zarathustra, non sapeva ovviamente che l'unico vero nietzschiano di Torino era uno studente del novarese che sarebbe divenuto sportellista della stazione di Porta Nuova e poi giornalista poliglotta. Fosse giunto in città dieci anni dopo, Nietzsche l'avrebbe di sicuro incrociato in qualche taverna e magari notato per la sagoma eccentrica.
Sceso a Torino dalla montagnosa Orta (dov'era nato nel 1870) questo originale pronipote di Dioniso si chiamava Emesto Ragazzoni e divideva il proprio tempo fra biliardi, osterie e la redazione de “La Stampa”, dove amministrava la sua fama di cronista distratto e, nel frattempo, di battutista inarrivabile. Non che non tenesse al mestiere (diverrà corrispondente da Parigi e da Londra): è che preferiva, a notte alta e dopo il lavoro, raccattare le parole come fossero scappate dalla dignità seriosa degli articoli per ricavarne un lazzo, una freddura, una rima bizzarra, mentre si avviava agli ipogei dell'ultima cantina aperta. Lì il cronista entrava finalmente nel furore bacchico (ma un furore affabile, ritmato dalla voce che dicono profonda e melodiosa) prodigando un talento da acrobata delle parole, piroettando ora con la sfacciataggine di un fauno ora con malizia da vecchio sileno.
La poetica parodia di Ragazzoni nasce davanti al verde del biliardo, sopra i tavoli macchiati di vino. Titoli come Poesia della rottura delle scatole, Elegia del verme solitario e la leggendaria Apoteosi dei culi d'Orta (in occasione dell'apertura di un vespasiano nel paese natale) non avrebbero potuto sorgere altrove. Dettandoli a momenti e soprassalti, lo spiritello di Dioniso subito li affidava alla tradizione orale, consacrandoli a un culto di iniziati e contubernali. Il testo che ne fissa per decenni la lezione infatti è postumo (Poesie, Chiantore 1927: Ragazzoni muore di cirrosi nel '20) e si deve a un letterato suo amico, autodefinitosi libertino, Arrigo Cajumi, un altro che Nietzsche avrebbe trovato divertente. La fedeltà garantita alla poesia di Ragazzoni da una cerchia di estimatori (pure Montale, avarissimo di riconoscimenti, ne disse qualcosa) viene oggi ricompensata da una esatta edizione, Buchi nella sabbia e pagine invisibili (a cura di Renato Martinoni, introd. di Sebastiano Vassalli, Einaudi, pp. 336, L. 17.500), che si segnala per almeno tre caratteristiche: il recupero e l'annotazione puntuale di testi volatili e privi di autografo; l'inserto delle versioni di autore, dove spicca Il corvo dell'amatissimo Poe; la ricca antologia di prose giornalistiche e inventive, e fra queste un articolo del 19, Le mie invisibilissime pagine, che funge da testamento e dichiarazione di poetica: «Uno dei lavori più graditi, per me, dei più appassionati, il lavoro dei lavori, è... non scrivere. (...) La mia teoria, aiutata anche da una ben nota indolenza, la quale mi è stata fin qui di gran conforto nella vita, è che le idee sono fatte per rimanere idee. Son cose di lusso o pericolose che a portarle sul mercato ci perdono o creano guai. (...) Corteggiatele tutte, le idee, non sposatene nessuna».
Non si tratta di una boutade, come volesse dire «abbasso Apollo!». È che il divertito nichilismo di Ragazzoni era rimasto tale nonostante il lungo vagabondaggio per l'Europa e l'Africa; e così la sua inappartenenza a chiunque. Se non sapremmo immaginarlo nella Torino, per lui postuma, di Gramsci e Gobetti, tuttavia è difficile inquadrarlo nel clima tra positivismo e socialismo umanitario di Lombroso e De Amicis; certo avrà partecipato, nell'aula VI di Lettere, ai famosi sabati pomeriggio di Arturo Graf, dove si riuniva la crème subalpina: si sarà seduto in disparte (a pochi posti da Gozzano, Vallini, Bontempelli, dal tronfio e pacioso Pastonchi), e avrà taciuto, stentando a trattenere il ghigno della testa zingaresca. Ragazzoni voleva esser e rimane uno scialacquatore, un outsider. Se Gozzano era l'acredine sottile, l'ironico pathos di un'età non ancora smaltita (tra gli spettri di Carlotta e Speranza, di Paolo e Virginia), Ragazzoni è colui che riduce quei luoghi e quei nomi a bigiotteria e ne fa allegro strame: i giardini, le rovine e le statue corrose, Pierrot con la lacrima di vaselina, il chiaro di luna, sono sconciati e seppelliti di colpo, «arsenale / completo d'una volta / romantico-autunnale». In questo modo infierisce, ad esempio, sul venerabile mito di Werther: «Il giovane Werther amava Carlotta / e già delle cosa fu grande sussurro. / Sapete in che modo si prese la cotta? / La vide una volta spartir pane e burro». Ragazzoni è mago della filastrocca: sue sono le rime a cascata che deflagrano in ecolalie, come vuoti a perdere; suo è il brevissimo quinario da libro delle elementari, la cui mitraglia ad alzo zero anticipa, nella cadenza, le «scemenze» petroliniane. (A proposito: tra i frammenti che il curatore Martinoni recupera, c'è l'ineffabile «Disse la tinca al luzzo / ove ten vai, o misero? / Disse il luzzo alla tinca: al lago di Braguzzo. / Morale: O tinca! O luzzo! / O lago di Braguzzo!». Ne individua la fonte nel romanzo L'attore di Mario Soldati, che a sua volta la deduce dalla tradizione orale. Andrebbe però detto che, con minime varianti, il testo è incorporato nel celebre Nerone di Ettore Petrolini - vedi Teatro, a cura di Pietro Bianchi, Garzanti 1971 - nonché concluso da una massima filosofante: «Una tinca sopra una panca di frumentone divenne tanto stanca che diventò più grossa. Morale: a tutti il vizio fa quel servizio»). Ma altra e più ambiziosa è la genealogia di Ragazzoni. Gli somigliano virtualmente la furia macaronica di Villon e certi attacchi dei Canti del capestro di Morgenstem; tra i contemporanei, duro e puro, il Lucini di Revolverate, ma l'avrà trovato troppo satirico e troppo poco parodico, irrimediabilmente sordo (con quei versi lunghi e placcati) alla musica della gratuità e della parola che si inabissa felice nel suo nulla. Semmai Ragazzoni avrà prosecutori fortuiti, riemergendo nelle pagine di Queneau e nelle partiture acrobatiche di un Toti Scialoja. Quanto a lui, gli basteranno i ditirambi di un Dioniso da osteria: «È finita. Il giornale è stampato, / la rotativa s'affretta, / me ne vado col bavero alzato, / dietro il fumo della sigaretta». Peccato davvero che Nietzsche non abbia fatto in tempo a leggerlo.

"alias - il manifesto", 20 maggio 2000

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