Il vecchio Stan Laurel, grande mente occulta del cinema comico americano degli anni '20 e '30, non ha mai firmato né la regia, né la sceneggiatura dei film che ha fatto con Oliver Hardy. Anche se poi, come ricordava lo stesso Ollio, Stan stava sempre dietro la macchina da presa, o a inventare gag, o a montarle alla moviola. Guardando i film fatti in coppia con Ollio in tv, anche da vecchio, Stan dichiarava che rimaneva costantemente meravigliato della forza comica del compare.
Probabilmente Stan sapeva, come ha detto una volta Cesare Zavattini, che la parta più bugiarda di un film sono i titoli di testa. Non solo, ma sapeva anche che il vero autore di un comico è il comico stesso, la propria fisicità sulla scena, il fatto di essere fatto in un certo modo e non in un altro. Ogni altra scrittura successiva può farci apparire il tutto più elegante, più accorto, può togliere qualcosa di imbarazzante dalla vita di un comico, ma non cambierà certo il mistero assoluto del proprio porsi sulla scena, di muoversi con un certo passo.
Non a caso un comico è finito quando la sua scena non è più forte come un tempo, quando non riesce più a ottenere lo stesso effetto. Buster Keaton, ad esempio, negli anni del sonoro non è più lo stesso attore di prima, anche se spesso potrebbe funzionare ugualmente bene e non ci pare proprio vero che sia stato distrutto dalle majors. Era spesso lui stesso il suo produttore. Ma aveva perso qualcosa nella mobilità, nello sguardo, nelle pieghe del viso, che ce lo rimandava diverso. In qualche modo si era storicizzato, aveva percorso uno spazio che il comico non deve mai percorrere. La battuta più tipica che si sente davanti a un film di Keaton degli anni '30, come davanti a uno dei tardi Laurei & Hardy, è: «Preferisco non vederli perchéfanno tristezza». Non è vero che fanno tristezza, o almeno la fanno come la possiamo fare noi stessi davanti a uno specchio a anni di distanza. Solo che sono invecchiati, hanno dimostrato che il tempo è passato.
“il manifesto”, 28 febbraio 1988
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