13.4.13

L'autobiografia di Carla Capponi, partigiana (di Sandro Portelli)

Questa recensione di Sandro Portelli, da “alias”, il magazine del “manifesto”, è del 2000, l’anno in cui uscì l’autobiografia di Carla Capponi e in cui, alcuni mesi dopo, la gloriosa partigiana morì. Non so dire la data precisa giacché nel mio ritaglio manca. (S.L.L.)

Verso la fine di marzo del 1999, a «Prima Pagina», la trasmissione mattutina di Radio 3, la giornalista di turno riferiva che Carla Capponi, Rosario Bentivegna e Pasquale Balsamo erano stati assolti definitivamente (e per l'ennesima volta) dall'accusa di strage per l'attacco partigiano contro i poliziotti nazisti a via Rasella nel 1944, a cui fece seguito la rappresaglia tedesca delle Fosse Ardeatine. Arrivò immediatamente la telefonata di un'ascoltatrice: «io me lo ricordo, io c'ero - i tedeschi misero manifesti per tutta Roma dicendo ai colpevoli di consegnarsi, ma quei vigliacchi non si presentarono e fecero ammazzare quella povera gente...».
La giornalista - quadro politico di sinistra, docente universitaria - non seppe cosa risponderle: non sapeva come erano andate le cose, magari aveva sentito anche lei la versione della sua interlocutrice. Ci vollero, per smentirla, le telefonate il giorno dopo del presidente dell'Associazione dei familiari degli uccisi alle Ardeatine, e di una studentessa che aveva studiato la stampa dell'epoca: non c'era stato nessun manifesto, la rappresaglia fu fatta immediatamente. Ma sono sicuro, come sa chiunque abbia provato a raccontare i fatti, che quell'anziana signora sarà rimasta aggrappata alla sua falsa memoria e avrà continuato a pensarla alla stessa maniera.
Carla Capponi a via Rasella c'era. Era una giovane donna di buona famiglia: nel senso dell'estrazione sociale, borghesia decorosa, con antenati aristocratici marchigiani, scivolata ai confini della povertà dopo la morte sul lavoro del padre, ingegnere minerario; e nel senso della morale politica antifascista, trasmessa nell'educazione ricevuta in casa per tenere lei e la sorella fuori dalle scuole fasciste, insieme al pianoforte, alle buone letture, a un desiderio di esplorare il mondo.
La sua autobiografia, Con cuore di donna (Il Saggiatore), è la storia di come il senso di decoro e di giustizia, la curiosità e l'apertura mentale che discendono da questa educazione siano la base su cui cresce una delle protagoniste della resistenza romana.
Su via Rasella Carla Capponi non svela cose che non si sapessero già: la dinamica di quella giornata e della rappresaglia nazista (tutt'altro che automatica, mai annunciata) è conosciuta da sempre, il quadro è consolidato. Ma lei sa bene che c'è bisogno di continuare a ripeterlo, perché la conoscenza storica è stravolta da miti, leggende, menzogne nella memoria diffusa e nei mass media; e svolge questo compito (lei che è stata per decenni trattata come un mostro da tanta opinione benpensante) con tono pacato e senza livore polemico.
È proprio il tono del racconto che ci fa percepire le scelte della protagonista, e implicitamente la resistenza stessa, come dati di necessità, quasi inevitabili, date le condizioni storiche e le fondazioni morali di partenza. L'ideologia arriverà solo dopo: Carla Capponi non entra nella resistenza perché è comunista, ma diventa comunista perché è entrata nella resistenza. Dipinge falci e martelli sui muri di Roma già il 7 novembre del 1943, ma è solo in aprile, braccata e nascosta, che trova per caso in una casa-rifugio il Manifesto di Marx ed Engels e lo legge avidamente, stupita di capirlo. Ed è bella, nelle ultime pagine, la scena di quando in piazza, il giorno della liberazione, sente qualcuno chiamarla «compagna» e si rende conto che adesso certe parole si possono dire ad alta voce, e che il compito che l'attende in futuro è quello di dargli corpo e sostanza.
Per questo, via Rasella è un capitolo del libro ma non il suo centro, così come è un momento importante della resistenza romana, ma non il solo. Incluso nel corso di una vita, e nel lungo periodo della resistenza e dell'occupazione, anche questo episodio ha ragioni ancora più chiare, un contesto più nitido. Le discussioni storiografiche (alcune sensate, molte insostenibili) sulle motivazioni politiche di quella particolare azione, sul ruolo dei partiti, sulle discussioni nel Cln e così via, restano fuori da questo racconto - non perché non abbiano motivo di essere, ma perché non è da queste cose che deriva il fatto che Carla e i suoi compagni quel giorno fossero lì.
Le ragioni personali, la storia della soggettività, sono infine il centro di ogni autobiografia. In questo caso lo dice già il titolo: «con cuore di donna» attira appunto l'attenzione sui sentimenti di questa ragazza per bene, che nelle virili motivazioni delle medaglie al valore è ricordata per la «fredda decisione contro l'avversario» ma nelle memorie di chi le fu accanto allora lascia - come mi disse una volta la gappista Lucia Ottobrini - «ricordi molto dolci».
Sono molti i momenti in cui la narratrice riflette sul rapporto con la violenza e con la morte, data e rischiata. Ma all'impulso autobiografico di svelamento resiste la formazione della narratrice, il decoro dell'educazione familiare prima, il ritegno dell'educazione comunista poi. Perciò la scrittura resta a volte scolastica, ma sempre funzionale e pulita, e mai autocompiaciuta e narcisistica.
Per finire, due omissioni. Nell'esplosione di via Rasella rimase ucciso accidentalmente un bambino, Piero Zuccheretti. Nel libro, Carla dice che allora i partigiani romani non se ne resero conto. Ma adesso lo sappiamo, e possiamo avere la forza di riconoscerlo e di nominarlo.
L'altra riguarda il dopoguerra. La vita coraggiosa di Carla Capponi non finisce con la liberazione. Esce a pezzi da mesi di fame, stress, fatica fisica, finisce in sanatorio, e lì, imperterrita, organizza le lotte dei malati in un'incredibile «Unione Lavoratori Tubercolotici» (ne parla anche Pasolini in Una vita violenta). Torna nelle disperate borgate che aveva conosciuto da partigiana - «e mi ricordo» (ha raccontato), «a Gordiani, mettevano delle scatole, sai, quelle cassette della frutta; io montavo lì sopra e arringavo le donne; arrivava la polizia, li insultavano, mi difendevano.... [Una volta] assediammo la Prefettura, e una donna che era incinta di pochi mesi, ha abortito, ha avuto un'emorragia. L'hanno messa su una camionetta, la portarono via: tutte e dire, «Prefetto, assassino, hai ammazzato un bambino! Prefetto, assassino, hai ammazzato un bambino...».
Ecco, Roma era anche questo, e sarebbe bello se Carla Capponi ne continuasse, con cuore di donna, il racconto.

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