Una storia dal "manifesto". Un intellettuale, un cineasta che condivide la vita delle giovani gang salvadoregne, un documentario che ne rivela a tutto il mondo non solo la natura, ma anche il legame con lo sviluppo del capitalismo imperialistico, la sua uccisione, una inchiesta "accomodata". Da leggere. (S.L.L)
Christian Poveda |
La Campanera: Gomorra tropicale, dove il tempo è scandito dalle raffiche di mitra e dai funerali. Periferia disastrata, che si estende senza soluzione di continuità ad est di San Salvador, capitale di uno dei paesi più poveri e violenti dell'America Centrale. La Campanera come Casal di Principe: "suburbi-mondo" dove le dinamiche della tribù e del clan si inseriscono nel flusso vorticoso dei traffici globalizzati a cui imprimono una nuova perversa configurazione e per i quali fungono da discarica. Qui lo Stato è assente e quando c'è è quasi sempre colluso: il regista Christian Poveda su questa realtà aveva alzato il velo. Ci si era immerso, armato solo di telecamera e macchina fotografica. Il 3 settembre del 2009 ne uscì cadavere. «Non era uno sprovveduto e neppure un incosciente come qualcuno ha insinuato. La Vida Loca è stato il frutto di un lavoro approfondito durato 4 anni» spiegava ancora affranta nel nostro incontro di qualche mese fa la produttrice francese del film Carole Solive.
Poveda è morto assassinato come i ragazzini delle maras, le gang-confraternite che seminano il terrore in questa immensa no men's land e che lui aveva avvicinato e conosciuto, riuscendo a conquistarne la fiducia. Una fiducia a tempo, precaria come la vita di questi "soldati bambini" filmati nei loro rituali quotidiani con primi piani stretti sui loro volti tatuati, segnati dall'appartenza al gruppo e dalle stigmate della violenza di strada.
«Aveva scoperto il Salvador durante la guerra civile. Vi era tornato come inviato di Paris Match per fare un servizio giornalistico. Voleva capire cosa erano diventati i guerriglieri venti anni dopo. In quel viaggio aveva scoperto le maras e la loro realtà, ne era rimasto turbato, colpito e aveva deciso di lavorare su questo tema con la passione e l'energia che lo hanno sempre mosso».
La Vida Loca, il film-testamento di Christian Poveda è stato presentato a L'Avana, San Paolo, al Festival di San Sebastian e al Moma di New York. In Francia, ha ottenuto un buon successo al botteghino. La gente nell'autunno di due anni fa accorse nelle sale rendendo così un omaggio postumo a questo regista di frontiera.
Poveda era nato in Algeria. Cittadino francese figlio di un antifranchista spagnolo, prima di dedicarsi a tempo pieno al documentario aveva lavorato per la televisione occupandosi di America Latina ma anche di indagini sull'estrema destra europea e sulle banlieues. In Italia il su film non è mai arrivato nelle sale nonostante Fandango ne avesse acquistato i diritti. Nel corso dei mesi però grazie al passaparola è diventato un piccolo fenomeno scaricato da Internet, ripreso dai blog, ha aperto la strada ad altre produzioni che oramai hanno assunto le caratteristiche proprie di un genere: i docu-film in salsa latina. Finestre, a volte compiaciute, sulla realtà violenta del Centro e Sudamerica del nuvo Millennio.
La Vida Loca però si distingue da altre pellicole sosia proprio per l'empaticità che traspira. Per il lavoro minuzioso di produzione e ricerca che lo ha reso possibile. Le storie dei giovanissimi pandilleros (e delle ragazze, le pandilleras, che occupano un ruolo centrale nelle baby gang) si dipanano a ritmo sincopato. Poco prima di morire a un giornalista di “El Pais” Christian Poveda spiegava: «Un documentario deve essere forte, avere un ritmo cinematografico, fare a pugni per conquistare lo spettatore. Nella mia vita ho filmato tanti cadaveri, ho visto tanti morti. La differenza è che quelli della Mara 18 li conoscevo, con loro avevo condiviso tempo e esperienze. Vederli morire ti cambia la vita ma fermarti e smettere di filmare non puoi, sarebbe un tradimento».
Carole Solive racconta: «Christian conosceva bene i capi della Mara 18 e se lo avesse domandato loro avrebbero sicuramente ucciso per davvero durante le riprese. Lui però non solo ha sempre chiaramente rifiutato ma non ha mai voluto filmare agguati e sparatorie». Lo schermo a intervalli regolari si fa nero. E si odono raffiche di armi automatiche. Colpi di pistola che "bucano" come ferite la colonna sonora dominata del raggaeton, la musica che le maras hanno importato dagli States riadattandola in salsa latina. Si, perché le maras sono un fenomeno transnazionale, sono il prodotto dei movimenti migratori, dei rimpatri e delle espulsioni che soprattutto negli anni 90 il governo statunitense ha imposto per frenare il massiccio afflusso di latinos sul proprio territorio e l'impiantarsi delle gang in posti come South Central. Il luogo di nascita delle maras, poi diffusesi a macchia d'olio non solo in Salvador ma anche in Guatemala, Messico e ora anche in Spagna, è proprio Los Angeles, la «città di quarzo» monitorata nelle sue metamorfosi dal sociologo e urbanista Mike Davis.
L'indagine sulla dinamica dell'omicidio di Poveda lascia a chi non voglia coprirsi gli occhi un sapore amaro. Udienze lampo. Testimonianze rilasciate a porte chiuse. In tutto 31 persone sono finite sotto inchiesta. 8 sono state condannate e tra queste ci sarebbe anche il sicario di Poveda, un membro della Mara 18 che con la Mara Salvatrucha si contende il territorio e il traffico di droga. Ma gli amici che hanno aiutato Christian a portare avanti i suoi progetti, che con lui hanno condiviso passioni, ricerche e rischi non hanno mai smesso di denuciare le carenze investigative e i tanti lati oscuri di una morte che tanti si auspicavano e tra i tanti c'erano coloro che non volevano strappi alla legge del terrore. «L'indagine è stata condotta in fretta e furia sbattendo in carcere un gruppo di giovanissimi pandilleros a tempo di record. Ma la mara è infiltrata dalla polizia e il lavoro di Poveda che si era speso per una tregua che mettesse fine alle faide tra le due principali gang del paese dava fastidio a molti». Il personaggio chiave dell'inchiesta, un ex poliziotto infiltrato che avrebbe fatto girare ad arte la voce che Poveda fosse un delatore.
Il nuovo presidente Mauricio Funes, ex giornalista della Cnn in lingua spagnola, esponente del Fronte Farabundo Martì che nel marzo 2009 ha vinto le elezioni portando la sinistra al potere dopo 20 anni di dominio avversario aveva chiesto a Christian Poveda consigli per tentare di fermare il massacro che avanza con una media di 9,6 omicidi al giorno (nel 2008 erano stati 3174 i morti ammazzati la maggioranza dei quali compresi nella fascia di età che va dai 15 ai 24 anni). Un tentativo di pacificazione che probabilmente aveva messo in allarme settori della polizia oltre a qualche qualche "cabeza loca" delle pandillas. I membri delle maras salvadoregne sarebbero almeno 15 mila, la metà dei quali rinchiusi in prigioni simili a gironi infernali. Poveda con la sua telecamera ha filmato questi adolescenti (i capi hanno al massimo 26 anni) rinchiusi a gruppi in celle simili a topaie, i rituali iniziatici, il difficile lavoro di alcune ong che alla Campanera avevano aperto una panetteria autogestita costretta a chiudere segnando così la fine di una piccola ma significativa esperienza di emancipazione nata all'interno del barrio.
Dopo aver visto La Vida Loca è difficile dimenticare i visi di "BanBan", "Little Crazy", "Spider", "La Chucky" e della "Liro", 19 anni, un figlio, il volto ricoperto da un enorme tatuaggio: il numero 18, quello della pandilla, la sua unica vera famiglia. Con la faccia così conciata basta sfiorare il territorio nemico o sbagliare strada per perdere la vita. Per finire nel mirino della mara Salvatrucha o in quello della polizia. Per finire come Christian Poveda la cui morte come tante altre è stata archiviata e infangata per spegnere ogni istanza di cambiamento e perché i traffici e l'economia che muovono non subissero scossoni.
“il manifesto”, 6 settembre 2011
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