Sembra che il panorama editoriale offra, finalmente, una nuova possibilità per tornare a discutere su Federico De Roberto, un autore al quale non è stata ancora data l'importanza che gli spetterebbe nella letteratura dell'Italia unita. È una possibilità che ci viene offerta dalla pubblicazione, presso l'editore Avagliano della Disdetta e altre novelle curata da Giuseppe Traina. Non si può dire che De Roberto non abbia avuto, a cominciare dagli anni '50, lettori congeniali e all'altezza della sua prosa, né ne ha avuti di privi di argomenti: basterebbe ricordare che di lui si sono occupati Baldacci (con un primo notevole saggio scritto addirittura a ventidue anni), Spinazzola, Madrignani, Tedesco, Grana, e finalmente Di Grado con una monografia imprescindibile, La vita, le carte, i turbamenti di Federico De Roberto, gentiluomo, perché approntata su una vasta mole di documenti anche d'archivio, pubblicata dalla Fondazione Verga nel 1998, di circolazione purtroppo clandestina: purtroppo, perché, tra l'altro, ci ha finalmente regalato non poche rivelazioni sul particolare modo di lavorare di questo scrittore, tra la vita (soprattutto la propria) e il libro.
Il titolo della raccolta ora curata da Traina fa perno sulla Disdetta, che infatti è messa in apertura e che era apparsa nel 1887 nella Sorte, ma che qui leggiamo restituita nella versione definitiva del 1910: una novella rilevante in cui c'è già, come osserva il curatore, il mondo dei Viceré (1894). Ma ben più interessante, almeno ai fini di una valutazione più compiuta dello scrittore, è invece La paura, che venne pubblicata su «Novella» il 15 agosto 1921, e che ora si trova in chiusura del volume. Le altre novelle raccolte sono Rivolta (medesima vicenda editoriale de La disdetta); Documenti umani e Donato Del Piano (entrambe dalla raccolta Documenti umani del 1888); Il paradiso perduto e Rimorso (tutte e due tratte da L'albero della scienza del 1890, ma la prima riproposta nella versione del 1911); Il rosario (da Processi verbali, del 1890); quindi, in appendice, Un incontro, apparso sul «Giornale d'Italia» del 4 gennaio 1915.
C'è da chiedersi perché La Paura, che Traina commenta giustamente come «degna di apparire in ogni antologia della miglior narrativa breve del Novecento», non abbia avuto - nel corso del tempo - i lettori che avrebbe meritato. La dice già lunga il fatto che non venne pubblicata sulla «Lettura», il mensile letterario del «Corriere della Sera», cui De Roberto l'aveva affidata; e sarebbe stata così poco notata che, erroneamente, venne proposta come inedita sulla «Fiera Letteraria» del 31 luglio 1927. «Interventista ma senza forti tinte nazionaliste» - così scrive ancora Traina - De Roberto ci lascia con questa novella uno dei documenti più impressionanti di condanna dell'assurdità della guerra. Com'era stato precocemente disfattista e ferocemente antirisorgimentale con I Viceré (che, non a caso, avevano irritato Croce), adesso, malgrado i suoi stessi intendimenti ideologici, lo scrittore catanese si presentava, alla nazione euforicamente patriottica e reducista, naturalmente antimilitarista ed implicitamente pacifista: ma la gelida indifferenza calata su questa novella non può avere soltanto ragioni politiche.
La guerra, infatti, è qui anche lo stato d'eccezione in cui si palesa, sino in fondo, e senza possibilità d'infingimento alcuno, la verità della condizione umana in quanto tale. Una verità evidente fin dall'incipit: «Nell'orrore della guerra l'orrore della natura: la desolazione della Valgrebbana, le ferree scaglie del Montemolon, le cuti delle due Grise, la forca del Palato e del Palbasso, i precipizii della Fòlpola». Ma dentro questo orrore universale, l'atroce mattanza diventa ancora più ingiustificabile, se i soldati sono invitati a morire, uno ad uno, per difendere una postazione che non è militarmente difendibile: sicché, proprio nel momento in cui l'onesto ufficiale di turno sta per rifiutarsi di far eseguire ordini così insensati, arriva assolutamente inaspettato il suicidio dell'eroe di guerra.
Ecco: l'inaccettabile metafisica di Leopardi, cui De Roberto aveva dedicato una intelligente monografia nel 1898, il suo feroce nichilismo, già ci incalzano. La vita è tutto ciò che abbiamo, ma anche tutto ciò che dobbiamo patire: e come avrebbe potuto avere lettori, in quell'Italia (e nella nostra), uno scrittore integralmente tragico che non esitava a mettere i suoi lettori di fronte allo specchio ottuso del nulla? Aveva già fatto esperienza dell'indifferenza dei lettori, qualche anno prima, Federigo Tozzi, destinato, ancora per decenni, ad un implacabile oblìo. Non faccio a caso il nome di Tozzi il quale, proprio insieme a De Roberto, può essere considerato il massimo rappresentante di quello che è l'espressionismo italiano; e da Contini - geniale coniatore del macaronico, e dell'espressionismo italiano studioso inarrivabile - quale scrittore espressionista, insieme a De Roberto, completamente ignorato. Ma Contini, che ammirava Bacchelli e celebrava Cecchi come il principale critico italiano del Novecento - stiamo parlando di due grandi e inguaribili conservatori - si arrestava alla contestazione del sistema linguistico: che è un piano su cui Faldella e Cagna sicuramente vollero e poterono più di De Roberto: il quale, in effetti, più che alla parola mirò alla cosa, colpa per cui, ancora oggi, si paga dazio. E seppe operare sull'angoscia dei commilitoni di questa novella, sulla loro paura di morire, come Munch ha lavorato sul suo urlo.
Anche sotto questo rispetto La paura fa impressione. Non si dovrà infatti dimenticare che, quando la novella venne pubblicata, eravamo in tempi di rondismo: e quello che Traina chiama «il realistico concerto pluridialettale» di De Roberto va in una direzione esattamente opposta alle intenzioni grammaticalmente nobilitanti di calligrafi ed elzeviristi, mentre si ritrae di fronte a qualsiasi facile processo di unificazione linguistica (di facile e deteriore manzonismo). Pagine di ordito linguistico così trasgressivo e, insieme, così calibrate su un preciso sentimento del mondo (e della sua follia), non se ne sarebbero lette più tante nella letteratura italiana futura. Motivo che già basterebbe, da solo, ad una rilettura finalmente attenta di questo grande narratore rimosso.
“il manifesto”, 12 gennaio 2005
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