Divide et impera. Al pari di quelle fortezze erette entro le mura della città, che Machiavelli sconsigliava al principe, il precetto indirizzato in antico contro i nemici viene comunemente adottato da chi detiene qualche potere nei confronti del proprio stesso popolo, assunto come nemico. Gli argomenti escogitati per dividere sono molteplici; più efficaci quando richiamano pregiudizi o tradizioni inveterate, credenze religiose, presunti interessi particolari. Barriere immaginarie vengono erette entro le popolazioni da chi controlla la società, affinché non riconoscano dove corrono le divisioni e le opposizioni vere; quali siano i nemici effettivi e come possano operare dietro chi le governa. Come tutte le ideologie, le divisioni indotte si trasformano in una forza materiale, che in questo caso opera per la distruzione e l'autodistruzione. Abbiamo un'esperienza ormai ricchissima di quali e quanti metodi, strutturali e psicologici, vengano oggi adottati per impedire o frantumare fra i lavoratori quell'unità che è il presupposto dell'organizzazione e della forza comune. Accentuazione delle gerarchie, mitizzazione della presunta imprenditorialità individuale, invisibilità dei grandi padroni celati dietro il frazionamento delle imprese, promozione della concorrenza fra uguali, delle opposizioni fra grandi settori («dipendenti» e «autonomi»), classi d'età, regioni, origini nazionali.
I razzismi hanno caratteri e fonti molteplici, variano nelle diverse epoche. Come tali sono oggetto di studio degli antropologi e degli storici. Ma l'uso politico dei razzismi nel periodo storico dominato dal capitale mira costantemente alla divisione, là dove si teme la possibile unione dei soggetti. Ne erano consapevoli le generazioni che hanno lottato per la pace e per il socialismo, a partire almeno dalla fine della prima guerra mondiale. (Basta ricordare i film, le opere letterarie e di ogni arte che hanno toccato questo tema.) Anche durante la durissima occupazione nazista facevamo attenzione a distinguere fra nazisti e tedeschi; né cessavamo di fruire, come di cosa nostra, della grande cultura tedesca (a cominciare dalla musica). Il razzismo - che è una nozione falsa - non si combatte con un razzismo opposto e speculare.
Ai razzismi si aggiungono oggi le guerre di religione, non più fra diverse confessioni cristiane (una delle vergogne della storia d'Europa, che pure celavano altri conflitti) ma come strumento per dividere popoli che vivevano in pace (vedi ex Jugoslavia) e - sul piano planetario - come «scontro di civiltà». Escogitato dai teorici su basi inesistenti, funge da buona premessa ideologica per la guerra permanente, l'attacco all'«asse del male» e al «terrorismo», la crociata antiislamica. Troppo simile, quest'ultima, alle crociate naziste contro gli ebrei, gli zingari, gli slavi (si ricordino, accanto al genocidio degli ebrei, i milioni di civili russi massacrati, la terra bruciata in Bielorussia - «operazione finale» messa in atto sul campo). Sono fin troppo noti i meccanismi economici e di potere che mossero in quella direzione i nazisti e muovono oggi in direzione simile le dirigenze degli Usa, nella fase degenerativa di quella che fu la civiltà borghese.
Alla crociata antiislamica - e in particolare antiaraba - partecipa purtroppo anche il governo di Israele, in una pretesa tutela della nazione che, in quella forma, appartiene anch'essa alla degenerazione della società borghese. Associato a quello degli Stati Uniti, il governo di Israele tradisce la grande tradizione degli ebrei della Diaspora e causa sofferenze intollerabili e lutti anche al proprio popolo. Se incomparabile è stato il contributo ebraico alla nostra comune civiltà in ogni suo aspetto e in particolare, negli ultimi due secoli, alla formazione del pensiero laico e socialista oltre che alla prassi rivoluzionaria, la creazione dello stato di Israele e i suoi esiti sono parte della radicale trasformazione che la nostra esistenza ha subito nella seconda parte del XX secolo. Il mondo distrutto in questi ultimi vent'anni è così vasto e profondo, che il caso della politica di Israele ne è solo una potente metafora. Scriveva Franco Fortini nella Lettera agli ebrei italiani (il manifesto, 24 maggio 1989; ora nell'ultima edizione, 2002, de I cani del Sinai): «Ogni casa che gli israeliani distruggono, ogni vita che quotidianamente uccidono e persino ogni giorno di scuola che fanno perdere ai ragazzi di Palestina, va perduta una parte dell'immenso deposito di verità e sapienza che, nella e per la cultura dell'Occidente, è stato accumulato dalle generazioni della Diaspora, dalla sventura gloriosa o nefanda dei ghetti attraverso la ferocia delle persecuzioni antiche e recenti. Una grande ebrea cristiana, Simone Weil, ha ricordato che la spada ferisce da due parti. Anche da più di due, oso aggiungere. Ogni giorno di guerra contro i palestinesi, ossia di falsa coscienza per gli israeliani, a sparire o a umiliarsi inavvertiti sono un edificio, una memoria, una pergamena, un sentimento, un verso, una modanatura della nostra vita e patria. ... La nostra vita non è solo diminuita dal sangue e dalla disperazione palestinese; lo è, ripeto, dalla dissipazione che Israele viene facendo di un tesoro comune. Non c'è laggiù università o istituto di ricerca, non biblioteca o museo, non auditorio o luogo di studio e di preghiera capaci di compensare l'accumulo di mala coscienza e di colpe rimosse che la pratica della sopraffazione induce nella vita e nella educazione degli israeliani. E anche in quella degli ebrei della Diaspora e dei loro amici. Uno dei quali sono io. Se ogni parola toglie una cartuccia dai mitra dei soldati dello Tsahal, un'altra ne toglie anche a quelli dei palestinesi. Parlino, dunque.»
Non ad altri se non agli ebrei sarebbe forse possibile rivolgere un simile invito, che implica il riferimento a una eccezionale condizione di guida intellettuale e morale al di sopra delle false divisioni non solo di razza ma anche di nazione. Si vorrebbe che non solo singole personalità ma la maggioranza degli ebrei italiani emulassero quanti in Israele, eredi di una grande tradizione, si oppongono alla politica dei propri governanti in termini anche estremi e con un coraggio civile sconosciuti presso altri popoli.
"il manifesto", 29 gennaio 2004
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