Sarà stato il 1991 o il 1992 e, a notte avanzata, squillò il telefono della mia casa di Porta Ticinese. Da tempo, e per la mia tendenza catalettica di cui già ho scritto, avevo imparato a non dare mai la sensazione di un improvviso risveglio, per cui, anche in quella circostanza, la mia voce suonò chiara e disinvolta alle orecchie del mio interlocutore. Che era Giorgio Gaber, reduce - così mi disse - dall'aver visto in replica notturna, appunto, una puntata di Profondo Nord, condotto da Gad Lerner. Mi capitava di partecipare, con una certa frequenza, a quel programma nella mia qualità di sociologo, allora residente a Milano, che già molto aveva scritto e pubblicato a proposito di immigrazione e di Lega Nord. Quelle trasmissioni, pur dedicate prevalentemente all'analisi e alla riflessione, vivevano di un clima piuttosto aspro (riflesso mediatico di quanto, addirittura asperrimo, cominciava a covare nella società italiana, in particolare in quella settentrionale).
D'altra parte, quella trasmissione, così tenacemente ostile a ciò che la Lega cominciava a rappresentare e ai «comitati dei cittadini» che si facevano xenofobi, mostrava un personale politico (leghista e missino) nuovo e radicato nel territorio, dava voce a umori e sentimenti collettivi che si diffondevano, cercava di interpretare le trasformazioni sociali in corso nel Nord del paese. Il tema centrale e dirimente era rappresentato, spesso, dalla questione dell'immigrazione.
Gaber mi telefonava proprio in proposito. Non eravamo amici (lo dico evidentemente con rammarico), ma appena conoscenti e le occasioni di conversazione, in passato, non erano state molte. Quella notte mi chiamava, colpito e perplesso per un'affermazione da me fatta in trasmissione, contestando con la franchezza che gli era propria quanto avevo detto. In particolare, una considerazione che giudicava «economicistica» a proposito del ruolo anche sociale dell'immigrazione extracomunitaria in Italia. Sin dall'epoca, infatti, io e altri sodali fornivamo un'interpretazione «rassicurante» dell'immigrazione, valutandola attraverso la lente del mercato del lavoro: dunque, i migranti come parte attiva del processo di produzione della ricchezza nazionale. Era ed è un argomento assai robusto, ma palesemente non esaustivo: Gaber ne contestava piuttosto il carattere «difensivo» e il rischio che potesse valere come ulteriore giustificazione «neocolonialista». Insomma, «li accogliamo perché ci servono e li sfruttiamo perché sono deboli».
Come si sa, non si tratta di una critica interamente da rigettare, al contrario, e Gaber (lo si vedrà anche in testi successivi) era particolarmente sensibile a quel tema. Non deve stupire, d'altra parte, l'uso di un termine come «economicistico»: Gaber era un intellettuale di molte e varie letture e proprio quel termine ricorreva, probabilmente, nel linguaggio condiviso della formazione politica che più aveva frequentato: il gruppo Gramsci. In ogni caso, Gaber - convinto dal tono della mia voce di avere un interlocutore completamente sveglio - argomentò a lungo la sua posizione, con grande passione e altrettanta pazienza e intelligenza. Io, forzatamente, ero laconico, ma sufficientemente allerta per proporgli un appuntamento per il giorno dopo.
Ci vedemmo, dalle parti di casa sua (nei pressi di piazzale Loreto, mi sembra di ricordare) e discutemmo a lungo. La cosa si ripeté successivamente per molte volte ancora. In una di quelle occasioni, Gaber mi diede il testo (scritto sempre con Sandro Luporini) di quella Qualcuno era comunista, appena pubblicata. Sin da allora, pensavo che fosse un passaggio chiave della biografia personale, artistica e politica. E quanto è accaduto dopo, e soprattutto certe interessate interpretazioni successive alla sua morte, mi confermano in quell'idea. Gaber, in particolare dalla pubblicazione di Destra-Sinistra, che esprime al meglio (e nel modo più divertente) una lunghissima riflessione critica, a partire dal Dialogo fra un impegnato e un non so, viene presentato come una sorta di «anticonformista antisinistra». Il che è pur vero, ma corrisponde a una lettura angusta, e certamente riduttiva, dell'intera produzione di Gaber e Luporini. Non solo: di «anticonformisti antisinistra» è piena zeppa la scena politica e intellettuale nazionale, ed è un’attività seriale e mediocre come mille altre. Il discorso di Gaber è assai più acuto e penetrante e capace di andare più a fondo.
da La musica è leggera, Il Saggiatore, 2012
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