Alla vigilia del primo maggio del 2007 Vittorio Foa rilasciò a Loris Campetti per “il manifesto” una intervista sul lavoro e sul movimento operaio. Foa non era più nel pieno della salute - sarebbe morto l’anno dopo, in autunno – ma la potenza intellettuale di cui Campetti riferisce è del tutto evidente non solo nei contenuti del suo conversare, anche nelle sue risonanze. E’ un testo tutto da leggere, per taluni versi testamentario. (S.L.L.)
Parlare di proletariato e rivoluzione è cosa che, come la bestia dantesca, «fa tremar le vene e i polsi». Farlo con un padre della sinistra e del sindacato come Vittorio Foa, che raccoglie e al tempo stesso sconquassa la memoria di un secolo di movimento operaio italiano è ancora più impegnativo. Più che come un'intervista, quella che segue va letta come una conversazione, in cui uno dei due parla e l'altro cerca di rendere ai lettori un pensiero lucido quanto complesso. Foa è così: tu gli fai una domanda e lui ti risponde con altre due domande, ti costringe a scoprirti, a comprometterti. Foa non cerca lo scontro, il frontale, anzi fa del tutto per spostare il terreno del confronto, fa la mossa inattesa, la mossa del cavallo per richiamare uno dei suoi libri più importanti («Il cavallo e la torre», Einaudi). Foa cerca l'aspetto positivo nelle cose e nei processi.
Classe 1910, lucidità e gusto nella provocazione positiva, è vero che Vittorio Foa incorpora la memoria, ma è più interessato al presente e al futuro che non al passato. Vuole sapere come andrà il ballottaggio in Francia. Non pretende, per fortuna, previsioni certe ma aiuti alla lettura, e insomma per cavarsela con Vittorio è meglio cercare di fare come lui e rispondere con altre domande. Ma oggi si parla di 1º Maggio, la festa dei lavoratori. O almeno, da qui partiamo. (L.C.)
Classe 1910, lucidità e gusto nella provocazione positiva, è vero che Vittorio Foa incorpora la memoria, ma è più interessato al presente e al futuro che non al passato. Vuole sapere come andrà il ballottaggio in Francia. Non pretende, per fortuna, previsioni certe ma aiuti alla lettura, e insomma per cavarsela con Vittorio è meglio cercare di fare come lui e rispondere con altre domande. Ma oggi si parla di 1º Maggio, la festa dei lavoratori. O almeno, da qui partiamo. (L.C.)
Che cos'è per te il 1º Maggio?
Il 1º Maggio richiama un'idea forte: il concetto di proletariato. Storicamente il 1º Maggio ha sempre rappresentato un segnale dell'ampiezza del proletariato. Il contenuto, tanto della festa del 1º Maggio quanto della categoria del proletariato è il lavoro umano. Pensando al 1° maggio mi si ripropone la domanda di che cosa viva ancora di tutto questo, e se sia possibile continuare a parlare oggi di proletariato, se esista un soggetto unico di riferimento. Io sono vecchio, tante cose sono cambiate ma non mi rassegno all'idea della fine del proletariato. Mi si può ribattere che oggi i lavori sono troppo diversi tra loro, ma questa non è una novità, non era forse vero in passato? Però, pur prendendo atto che non c'è più un punto unico di riferimento, non mi voglio rassegnare a un tale vuoto.
Come sostieni questa non rassegnazione, su cosa la fondi?
Io credo che per rileggere la categoria del proletariato, pur con tutte le straordinarie differenze e articolazioni al suo interno, ci possano aiutare due punti di riferimento. Il primo è il precariato, che esiste non solo nel lavoro ma anche nella vita di così tante persone. Il precariato è un elemento di unificazione di tanti aspetti della vita e suggerisce una riflessione più ampia sul lavoro umano e il suo destino. Il secondo punto di riferimento che vorrei suggerire come chiave dei lettura è l'immigrazione, con il suo portato di cambiamento che è un dato di certezza per il futuro. Perché è evidente a tutti che il mondo cambierà profondamente per effetto del processo immigratorio globale. E che conseguenze avrà questo mutamento nei rapporti umani, tra le persone? Mi sembra evidente che, dentro questo processo, un aspetto centrale è e sarà rappresentato dal lavoro umano, con tutte le sue incertezze e le sue speranze, con la straordinaria pluralità dei destini di ciascuno.
Eppure le categorie che vanno più di moda, anche a sinistra, sono altre. Per esempio, lo sviluppo, il sapere...
Come vedi, ho usato due punti di riferimento non professionali per definire una possibile rilettura del proletariato. Potremmo invece parlare di ricerca e di sviluppo del sapere, ma questo è un aspetto quanto mai contraddittorio, sarebbe come navigare nel vuoto. In astratto, la categoria del sapere è, direi, improbabile. Se si affronta dal punto di vista della formazione del lavoro umano, ti accorgi che quel che vuoi formare è già formato, o non lo sarà mai. Nel sapere si ritrovano tante cose e tante differenze straordinarie, quante se ne possono trovare nel reddito. E la considerazione sul reddito è automatica: c'è chi può e chi non può. Così è nella vita, e non ti sembra che ciò valga anche rispetto al sapere? Per questo tale categoria non la sento più come possibile riferimento per definire il lavoro umano, che è molto di più che un accumulo e un uso di energie, al tempo stesso è un insieme di passioni, di delusioni e speranze. Un insieme difficile da distinguere. Nel lavoro umano si rintraccia la pluralità dei destini che vive in ogni cosa umana. Se queste considerazioni di un vecchio come me hanno un senso, non ha invece senso alcuno parlare di fine, o scomparsa del lavoro.
Come si può distribuire il sapere in modo più equo?
Non so rispondere immediatamente alla domanda, e questo non mi preoccupa: l'importante è porsi il problema della diseguaglianza del sapere. So anche che non esistono quesiti o problemi insolubili. Così come so che ognuno è quel che è nel luogo e nel tempo in cui nasce, i nove decimi del destino di ognuno di noi sono segnati.
Lo pensava anche Carlo Marx...
Si, come dice Marx, la condizione determina l'essere. La domanda che dobbiamo porci, allora, diventa: come si fa a modificare l'essere? Ecco, anche in questo caso mi sembra già positivo porsi il problema.
Dire che non ci sono problemi insolubili è un messaggio di speranza ai giovani, un invito a diventare soggetti attivi del cambiamento.
Dicevo che non ci sono problemi insolubili, ma vorrei aggiungere che non credo nelle soluzioni immediate. Lo dico da riformista qual sono, anzi, preferisco usare un altro termine meno abusato: io sono gradualista. Le cose vanno avanti un po' alla volta, non mi convincono le soluzioni immediate.
Non dev'essere semplice per uno come te, che si rifiuta di accettare la teoria della fine del lavoro e del proletariato, prendere atto della cancellazione del lavoro e dei lavoratori come soggetto collettivo dall'agenda della sinistra. Nel manifesto del Partito democratico ci sono le persone, i consumatori. Non ci sono i lavoratori.
Io moralmente appartengo all'idea del centrosinistra. Ero contento quando ha vinto il centrosinistra, poi, invece, sono sopravvenute in me due amarezze. La prima è legata alla corsa di una grande quantità di persone alla conquista dei posti e dei soldi, il potere appare come un'occasione straordinaria per accumulare ricchezza.
Ti riferisci al primo centrosinistra, quello di Nenni e della stanza dei bottoni?
No, penso proprio al centrosinistra di oggi, quello che ha vinto con Prodi. Sul primo centrosinistra, quello di Nenni, ho già detto quel che pensavo tanti anni fa. La seconda amarezza mi viene dalla facilità con cui ci si pente, in particolare di essere stati comunisti. Meglio sarebbe affrontare una riflessione seria su quel che è stato il comunismo, dire qui ho sbagliato e qui invece avevamo ragione. Questi atteggiamenti mi disturbano e determinano in me una grande riserva sul presente. Certo, posso accettarlo, il presente, perché so bene che ci sono alternative possibili decisamente peggiori. Ma queste sono considerazioni da vecchio, e i vecchi hanno meno diritti, anche di pensare.
C'è chi sostiene che la mancata riflessione sul socialismo reale abbia prodotto una rimozione, e nella rimozione si è consumata la perdita delle radici.
Ho pensato a questo, ma la tesi mi convince relativamente perché la perdita di coscienza nasce molto prima del comunismo. Così come la nostalgia. Pensa per esempio alla nostalgia per un episodio rivoluzionario, la Rivoluzione francese, la Rivoluzione d'ottobre, o magari pensa al '68. Quei processi rivoluzionari sono falliti, ma la nostra nostalgia resta e non riguarda l'episodio rivoluzionario, bensì l'idea che gli uomini d'accordo tra di loro pensano di poter vincere lo spazio e il tempo. La nostalgia è per la fattibilità del mutamento attraverso l'azione comune, che è l'idea stessa della rivoluzione prima ancora dei suoi contenuti. Sono situazioni che capitano alcune volte nella vita e nella storia dell'umanità, quando si accumulano speranze, passioni. Cosa resta dopo? Magari dopo la sconfitta? Resta la nostalgia, voi la vivrete sempre la nostalgia. Quanto è durato il governo rivoluzionario di Robespierre? Un anno? Ben più a lungo è durata la nostalgia dei montagnardi. E non dura forse ancora la nostalgia di voi comunisti? In fondo, è la nostalgia per l'idea che il mondo cambierà, potrà cambiare. Con la nostra lotta comune.
Al giovane operaio, al precario nella vita e nel lavoro, a chi il lavoro neanche lo trova, quale messaggio ti senti di dare?
Si potrebbe essere indotti a pensare che se a Roma per il 1° Maggio resta solo un megaconcerto, allora non è che sia rimasto molto. Io non credo che sia in atto solo una riduzione a suoni dell'internazionalismo - e poi, ti sembra poco la musica, la musica vissuta insieme? - piuttosto penso a un'internazionalizzazione diversa. Le cose cambiano ma qualcosa comunque resiste. Ai giovani direi: pensate alla politica che è un pezzo decisivo nella vita delle persone, ma non è tutto. Allora pensate anche ad altro, e soprattutto pensate agli altri. Pensare agli altri è già una prospettiva di vita.
“il manifesto” 2007.05.01
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