Restaurata,
ripulita, tirata a lucido come una gemma centenaria dimenticata nel
fondo di un cassetto della storia, torna sugli schermi la prima
testimonianza cinematografica sulla Fiat e una delle prime che
presentano un’officina meccanica italiana. Dai dati a disposizione
sul filmato Le officine della Fiat, titolo del documentario
tornato oggi alla luce, non risultano le ragioni per cui sia stato
prodotto da Luca Comerio. Ma è probabile che l’occasione sia stata
la grande Esposizione internazionale del 1911 al parco torinese del
Valentino, nella ricorrenza del primo mezzo secolo dell’unità
d’Italia e dedicata alle industrie e al lavoro, ricorrenza che,
come scrive Valerio Castronovo in Un secolo di storia italiana
«non aveva solo consacrato il ruolo assunto dalla capitale subalpina
nel campo della tecnica e della produzione. Quella manifestazione a
cui era accorso un gran numero di visitatori anche dall’estero
aveva affrancato la città da una patina di provincialismo e l'aveva
accreditata come l’avamposto di una nuova Italia».
Siamo
a Torino in corso Dante e come detto nel 1911. Datazione questa
ricavata da un fotogramma del filmato in cui compare un uomo che
tiene tra le mani una copia de “La Stampa” dalla cui prima pagina
si è potuto risalire alla data di pubblicazione del quotidiano
torinese. È l’anno della guerra di Libia per la quale la Fiat
ottenne considerevoli commesse di autocarri militari. Anno in cui il
cavaliere Giovanni Agnelli, non ancora del tutto sciolto da guai
giudiziari, era tornato negli Usa dopo esserci stato la prima volta
nel 1906, per studiare il successo della Ford model T, la prima
utilitaria e le tecniche con cui questa veniva prodotta. Intanto la
città di Torino, registrando 28 mila maestranze di cui tremila alla
Fiat, 225 operai ogni mille abitanti, segnava un aumento della
popolazione di diecimila unità all'anno e un numero di laureati al
Politecnico che siperava quello dei laureati in Giurisprudenza.
Contemporaneamente la Fiat aveva raggiunto le 2600 unità prodotte in
un anno, la metà di quelle fabbricate in Italia e aveva aperto sedi
commerciali in Germania, Russia, Austria, Ungheria, Polonia, Francia,
Regno Unito e New York. In segreto i suoi progettisti stavano
studiando e progettando la prima utilitaria italiana, la Tipo Zero.
È
su questo terreno, dunque, che bisogna scendere per apprezzare il
breve documentario di cui si parla. Undici minuti di girato suddivisi
in sette capitoli preceduti da altrettanti cartelli tematici: operai
al lavoro, montaggio cambi di velocità, montaggio motori, prova
motori, montaggio chassis, prova vetture, mezzogiorno. Ci si è
chiesti se il filmato racchiudesse un’intenzione propagandistica. A
giudicare dalle immagini non si direbbe. Il marchio di fabbrica non
compare, infatti, che in modo obbligato e solo sui radiatori delle
vetture in fase di montaggio. Se qualcosa del non detto prevale,
questo riguarda invece l'intenzione descrittiva e un sommesso
orgoglio manifatturiero.
All’esterno
delle officine poche auto, strade deserte, silenzio intuibile e non
per l'evidente mancanza del sonoro, ima carrozzella, un passeggero e
un cavallo, un tram aperto, un'edicola con pochi giornali.
Tranquillità e misura. Identica atmosfera si respira all'interno
dell'officina, ancorché i locali siano popolati di operai e tecnici
al lavoro attorno ai pezzi, alle macchine, agli strumenti di lavoro,
ai cassoni ingombri di materiali. Qualche ragazzo, nessuna donna,
l’ambiente illuminato dalla luce artificiale diffusa da una selva
di eleganti globi opacizzati che scendono dal soffitto nobilitandolo
della loro presenza calda e cordiale. Gli operai indossano casacche
di tessuto grezzo, molti hanno i baffi, non sembrano disturbati dal
fatto di essere ripresi, lavorano, tirano focosamente di lima, uno in
particolare desta attenzione per via di un fazzoletto legato al
mento, segno di un probabile ma sopportato mal di denti. È siamo
alla conclusione introdotta dal cartello: Mezzogiorno!
annuncio che apre la sequenza dell’uscita per la pausa pranzo,
pagina per altro antologica di per sé che segna l'inizio delle due
ore di interruzione dal lavoro degli operai e dei funzionari, molti
dei quali tornavano alle loro abitazioni. Tutti portano un copricapo
nonostante la stagione mite. Così a giudicare dall’abbigliamento
leggero. Berretti, lobbie, cappelli a larga tesa, panama, ma nessun
basco.Qualcuno si scopre in segno di saluto rivolto a chi dietro la
cinepresa sta riprendendo quella circostanza felice.
Si
può dire che questo dell'uscita dalla fabbrica sia il momento in cui
la fabbrica non c'è. Ma ciò non vuol dire che non si sente. Vista
cento anni dopo, la ripresa in questione non nasconde, infatti, una
riflessione inevitabile sulla città e il suo destino di essere
«città pilota». Un destino che si paga col sentirsi il terreno di
un'alternanza di successi e insuccessi, di aver dovuto rinunciare per
tanti anni di essere città dei piaceri, come nelle parole di
Vittorio Messori, città del cioccolato e della birra, sede della
scienza triste di Cesare Lombroso, città fatalmente predilettta da
Nietzsche, sede del più grande ricovero del mondo, una città
“disturbata” dal suo essere stata capitale, città tornata ad
essere oggi luogo di cultura non senza cedere al rischio del farsi
turistico. Certo che in cento anni di strada e di giravolte Torino
ne ha fatte e chissà quante ne farà ancora.
“La
Stampa”, 6 luglio 2011
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