Apprendere che il testo
della Commedia non è unico e indiscutibile, ma che a seconda delle
edizioni ci si può imbattere in letture diverse, è stata per me,
tanti anni fa, una di quelle scoperte inquietanti che portano gli
adolescenti a mettere in discussione il mondo granitico e legalitario
dell’infanzia. Mi era capitata tra le mani, per una ricerca
scolastica, l’ottocentesca Vita di Dante di Cesare Balbo, e lì a
un certo punto erano citati i versi iniziali del poema. Solo il primo
era uguale a quello che conoscevo io: «Nel mezzo del cammin di
nostra vita». Il secondo e il terzo dicevano «i’ mi trovai per
una selva oscura / che la diretta via era smarrita».
Io quei pochi versi li
avevo studiati da poco e li sapevo a memoria, ma nel dubbio andai a
controllare sull’edizione che usavamo al liceo: lì c’era scritto
«mi ritrovai per una selva oscura, / ché la diritta via era
smarrita». Ora, pazienza per «i’ mi trovai» anziché «mi
ritrovai», ma la via era diretta o diritta? Faceva, mi parve, una
bella differenza! La professoressa, a cui andai a chiedere lumi, mi
parlò di tradizione manoscritta, di lezioni divergenti e di edizione
critica, tutte cose che oggi, visto il mestiere che faccio, mi paiono
addirittura ovvie, ma che allora erano nuove e aliene. Mi rimase un
fastidio di fondo: com’è possibile che noi non sappiamo
esattamente che cosa ha scritto Dante?
In seguito avrei scoperto
che questa è la condizione normale di qualsiasi testo antico o
medievale, tramandato da manoscritti in cui era inevitabile che
s’introducessero delle varianti, per inavvertenza o per arbitrio
del copista. Sono arrivati fino a noi più di 800 codici medievali
della Commedia, ma nessuno di mano di Dante, di cui non possediamo
neppure una riga autografa. La foresta delle varianti è perciò
infinita, e non parlo soltanto di quelle puramente grafiche, che non
hanno grande importanza, perché gli usi cambiano col tempo. Oggi è
possibile vedere in rete molti di questi codici, e scoprire con un
clic che un manoscritto copiato da Francesco di ser Nardo da
Barberino verso la metà del Trecento, pochi anni dopo la morte di
Dante, cominciava così: «Nel meçço del cammino di nostra uita /
mi ritrouai per una selua obschura / chella diritta via era
smarrita», mentre quello trascritto, sempre a Firenze, da Filippo
Villani alla fine del Trecento cominciava così: «Nel mezzo del
camin di nostra uita, / mi ritrouai per una selua oscura, / che la
diricta uia era smarrita». L’ortografia non era ancora fissata; la
via, però, è sempre diritta, e infatti oggi tutte le edizioni
leggono così.
Ma non è sempre così
facile. In genere per stabilire il testo critico di un’opera si
analizzano tutti i manoscritti e se ne stabilisce la genealogia,
scoprendo, attraverso mille indizi, quali sono i più antichi e
autorevoli, e quali sono stati copiati più tardi. Nel caso della
Commedia, però, un secolo e mezzo di discussioni ha convinto gli
studiosi che è impossibile stabilire una cronologia delle varianti
tramandate, e risalire alle più antiche: la contaminazione, osserva
il dantista Enrico Malato, è «infiltrata in profondità in tutto il
territorio del poema».
Sembra di sentire un
medico che descrive l’avanzare della patologia in un corpo infermo,
o un militare che assiste al proliferare dei vietcong o dei
mujaheddin nel territorio che dovrebbe difendere; e senza dubbio lo
specialista di Dante si sente in trincea. Non c’è arma del suo
arsenale che permetta di affrontare con sicurezza impersonale il
problema dello stabilimento del testo: deve mettersi in gioco lui, in
prima persona, e decidere in base alla propria interpretazione. Se
Dante, quando incontra Virgilio, abbia esclamato che la fama del
Mantovano durerà «quanto ’l mondo» oppure «quanto ’l moto»
(e cioè, intendiamo, il moto delle sfere celesti) non lo sapevano
già i commentatori antichi, e oggi lo può decidere soltanto la
sensibilità dello studioso.
Perciò fa notizia ogni
nuova edizione della Commedia che proponga novità. Malato, che è
uno dei massimi dantisti viventi, ha appena pubblicato in anteprima,
nell’elegante collana supertascabile dei «Diamanti», il frutto di
molti anni di lavoro, in attesa di pubblicarne l’editio maior,
prevista in ben cinque tomi entro il 2021, per l’anniversario della
morte di Dante. L’autore avverte con modestia che non si tratta di
un nuovo testo critico, pretesa velleitaria, dice, rispetto alla
solidità del testo stabilito mezzo secolo fa da Giorgio Petrocchi.
Ma in realtà le novità sono molte. È nuova la punteggiatura,
adeguata agli usi moderni: perché non c’è parte della nostra
scrittura che cambi più vistosamente col trascorrere delle
generazioni. È nuovo l’abbandono di grafie come «bascio»,
ricondotto definitivamente al nostro bacio: e così finalmente
Francesca ricorda che Paolo «la bocca mi baciò tutto tremante»
(endecasillabo memorabile, che bisognerebbe opporre a quelli che
pretendono di «tradurre» Dante in italiano moderno).
Ma le varianti più
suggestive sono quelle in cui cambia un’intera parola. Il
battesimo, spiega Virgilio a Dante nel IV dell’Inferno, «è porta
della fede che tu credi»; così, almeno, credevamo finora. La verità
è che in tutti i manoscritti c’è scritto «parte», tranne uno
solo in cui la parola è stata corretta arbitrariamente in «porta»;
e che è stata l’Accademia della Crusca, nel 1595, a imporre
quest’ultima lezione, pensando alla definizione scolastica del
battesimo come «porta dei sacramenti», mentre tutti i commentatori
coevi a Dante o di poco posteriori davano tranquillamente per
scontato che la lezione fosse «parte». In questo caso Malato
osserva che per cambiare una lezione universalmente condivisa dalla
tradizione manoscritta ci vuole qualcosa di più di un’ingegnosa
ipotesi, per quanto questa possa piacerci.
Ma può anche capitare il
caso opposto, e cioè che una forma presente in tutti i manoscritti
venga sostituita precisamente sulla base di una congettura: come nel
XIV dell’Inferno, dove Dante descrive le acque termali del
Bulicame presso Viterbo aggiungendo, misteriosamente, che servono
alle «peccatrici». Per secoli i commentatori si sono affannati a
spiegare che da quelle parti doveva sorgere un bordello: ma le
peccatrici erano molto più probabilmente delle oneste «pettatrici»,
operaie cioè che usavano l’acqua bollente per la pettinatura del
lino o della canapa (e qui sovviene una citazione carducciana,
anch’essa medievaleggiante: «quando l’austero e pio Gian della
Bella / trasse i baroni a pettinare il lino»).
Devo aggiungere che nel
volume di accompagnamento in cui rende conto delle sue scelte, il
professor Malato impiega cinque pagine a stampa fittissima per
giustificare le pettatrici? A decidere, alla fine, è la sensibilità
dello studioso, ma non il suo arbitrio: ogni scelta dev’essere
motivata, perché questo è un lavoro scientifico, anche se di una
scienza che ha a che fare quotidianamente con l’arte e ne è, alla
fine, infiltrata.
La Stampa 22/10/2018
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