Richard Wagner |
Il più esagitato ed
esagerato fu probabilmente Guillaume Lekeu, giovane e brillante
musicista, wagneriano fanatico. Nel 1889, approdato sulla sacra
collina di Bayreuth per il Tristan, svenne già durante il
Preludio. Chissà se Cesare Lombroso conobbe mai il ghiotto aneddoto.
Avrebbe subito incasellato Lekeu in una delle sue categorie
antropologiche, magari chiesto anche un esame frenologico. La musica
e la psiche, gli effetti calmanti e/o eccitanti delle note sul
cervello, i rapporti fra genio e follia furono al centro degli
interessi di Lombroso almeno quanto l’Uomo delinquente. Erano gli
anni in cui probabilmente incrociò spesso a Torino Friedrich
Nietzsche, perché frequentavano entrambi con assiduità teatri e
sale da concerto. Prima del fatale abbraccio al cavallo del 3 gennaio
1889 (sarebbe partito per sempre il giorno dopo da Porta Nuova,
cantando canzoni napoletane e fermamente convinto di essere il Re
d’Italia) proprio a Torino, al Carignano, Nietzsche ascoltò la
Carmen di Bizet, diventata poi il manifesto del suo
antiwagnerismo (anche se la vera causa della rottura, più che
l’aborrita - e presunta - svolta religiosa del Parsifal, fu
la gaffe piramidale del povero Friedrich che un brutto giorno si
presentò a Villa Wahnfried con lo spartito del Triumphlied di
Brahms sotto il braccio. Richard e soprattutto Cosima non glielo
perdonarono mai).
Cesare Lombroso |
Tant’è: alla «Musica
a Torino nell’epoca di Lombroso» è dedicato il curioso concerto
di sabato nell’Aula Magna del Museo di Anatomia, in attesa della
riapertura di quello di Antropologia criminale che, fra gli altri
raccapriccianti reperti, conserva sotto formalina anche la testa
dello stesso Lombroso. Le rarità del programma saranno intervallate
da letture. Ma qui, su genio e dintorni, Lombroso appare piuttosto un
romantico, convinto che il genio crei in preda a un raptus divino
pericolosamente vicino alla pazzia. Dunque, sarebbe contraddistinto
da «un’estrema esagerazione di quei due stadî alterni di eretismo
e di atonia, di estro e di esaurimento, che noi vedemmo manifestarsi
fisiologicamente in pressoché tutti i grandi intelletti», come
scrive appunto in Genio e follia: «Un genio ispira a Cardano le
opere, a Tartini la sonata, a Maometto le pagine del Corano /.
Palestrina, nel comporre, fantasticava di porre in iscritto i canti
di un invisibile angelo» (interessante e attuale, sia detto en
passant, l’accenno a Maometto). Lombroso cita Flaubert
(«L’artiste, selon moi, est une monstruosité») e Balzac («Le
génie est une orrible maladie»). E nel 1894, sulla Rivista Musicale
Italiana, presenta un vero sondaggio su trenta «dilettanti»,
chiedendo loro che risultati, fisici e psichici, produca la musica,
come la ricordino, a che colori l’associno e così via.
Sui compositori, invece,
le valutazioni sono simili a quelle di qualsiasi signora mia: «Wagner
e Beethoven danno un godimento pari per intensità; ma Wagner dà un
godimento agitato, e Beethoven, invece, grave, calmo». Mentre «da
Heine al più umile dilettante, tutti sono colpiti da quella specie
di gaio sorriso che c’è in Rossini anche nei punti più
drammatici»: a scusante di Lombroso, si potrebbe aggiungere che ai
suoi tempi il Rossini «serio» era sconosciuto. Sai che risate,
all’Ermione o al Maometto II...
Naturalmente, il
musicista più discusso è Wagner, sempre Wagner, fortissimamente
Wagner. La musica dell’avvenire, la dissoluzione delle forme,
l’armonia portata fino ai confini della sua disgregazione
appassionavano Lombroso come tutti i suoi contemporanei. Verdi, ad
esempio, non aveva dubbi: «È matto!», sentenziò sullo spartito
del Lohengrin. Ma, meglio e prima, aveva capito tutto il
solito Baudelaire: «Wagner est une névrose». Per conferma,
chiedere a Lekeu.
“La Stampa”, 3 aprile
2008
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