Questo articolo è del 1989, scritto proprio alla vigilia della Bolognina, cioè della svolta che Occhetto impresse al Pci portandolo a trasformarsi in un partito democratico di sinistra. Quella svolta cancellava il progetto di “nuovo Pci” che – all'inizio dell'anno – in un congresso pieno di speranze era stato proposto ai militanti e ai sostenitori del partito. Ragionare di Togliatti e del togliattismo (come di Berlinguer) oggi può sembrare del tutto anacronistico, quasi ridicolo: in un tempo in cui sembra dissolta non solo l'identità comunista, ma anche quella di classe e l'ipotesi di un'organizzazione politica autonoma dei lavoratori è considerata una bizzarria. Intanto alla crisi sempre più evidente della democrazia rappresentativa non sembrano venire risposte che vadano nel senso di una maggiore diffusione del potere, di una maggiore libertà per tutte e tutti.
Ne sono convinto: questa
regressione passerà e tornerà in politica la forza del lavoro,
l'unica che mi pare in grado di battere l'autoritarismo distruttivo
del capitale. Allora bisognerà riappropriarsi di Gramsci, di
Togliatti e di Berlinguer, cioè del grande retaggio democratico del
comunismo italiano. E senza le censure dell'odierno opportunismo,
capace di esaltare la visione lungimirante dell'uno, l'abilità
politica dell'altro, il rigore etico dell'altro ancora, riducendo a
mero accidente il loro comunismo. In verità questa tradizione
politica oramai esaurita ha avuto la capacità di fare dei più
deboli, dei meno culturalmente attrezzati, perfino dei più esposti a
tentazioni vandeane, una massa stabilmente organizzata di cittadini
consapevoli, capace di cambiare gradualmente le cose verso il meglio.
Necessariamente nuove saranno molte delle idee-guida, adeguate alle
trasformazioni tecniche e produttive, quando un'altra generazione di
lavoratori e di intellettuali riprenderà il filo di una liberazione
interrotta. Intanto anche un articolo come questo di Asor Rosa può
servire a fissare qualche distinzione, a impedire che tutto si
frantumi e si perda nel frullato. (S.L.L.)
Io sono un comunista che
non è mai stato togliattiano: o che, meglio, non ha fatto in tempo a
diventarlo. Sono stato iscritto la prima volta al Pci fra il 1952 e
il 1957: ammiravo molto Togliatti; ma non posso dire di aver subito
in profondità il suo innegabile fascino intellettuale. Non ho fatto
neanche in tempo a diventare un comunista stalinista: nel 1957 sono
uscito dal Pci perché non riuscivo ad accettare che l' invasione
sovietica dell' Ungheria rientrasse nel grande disegno della
liberazione mondiale dei popoli oppressi. Togliatti mi appare oggi un
personaggio lontano, quasi completamente estraneo alla mia cultura e
formazione politica. Questo non significa che non ne veda il ruolo
svolto nella storia italiana ed europea dell' ultimo quarantennio: e
su quest'ultimo punto vorrei avanzare qualche considerazione.
Qualunque sia oggi il giudizio sul nostro passato, non v' è dubbio,
mi pare, che Palmiro Togliatti resti l'unico uomo politico comunista
dell'Occidente capitalistico che sia riuscito a coniugare la
prospettiva terzinternazionalista, e dunque l'adesione al quadro
staliniano, con l'accettazione piena, e a mio giudizio
incondizionata, della pratica della democrazia rappresentativa. Nel
fatto che abbia tenuto insieme le due cose, consiste altrettanto
indubbiamente la sua doppiezza. Ma la doppiezza fa parte ab imis
delle qualità del grande politico: ed essa, nel caso nostro, ha
funzionato da autentica virtù salvifica, se è vero, com'è vero,
che ne è derivato che il movimento comunista sia stato in Italia un
movimento di massa e non settario, prospettico ma concreto, con forti
tensioni rivoluzionarie ma profondamente riformatore.
Tutti sanno ed è inutile
tornarvi su questa sede quali strumenti, mezzi ed anche veri e propri
espedienti egli abbia usato per raggiungere questo scopo: la
strategia delle alleanze, le aperture verso i cattolici, la politica
verso gli intellettuali, l'opzione culturale storicistico-marxista
(con forti simpatie crociane), la pubblicazione delle opere di
Antonio Gramsci in funzione antizdanoviana; accoppiando tutto questo
con un senso preciso del carattere mondiale della rivoluzione
socialista sotto il segno della solidarietà all'Unione Sovietica e
dell'unità indefettibile e intoccabile, ideologicamente fondata, del
Partito. Su ognuno di questi punti la discussione ovviamente è
aperta (per taluni di noi, come ho detto, è aperta ormai da
trent'anni) e il rifiuto può essere legittimamente assai netto. Ma
sul lungo periodo io credo Togliatti verrà ricordato, più che per
la sua adesione strategica allo stalinismo, per il capolavoro
tattico, che gli ha consentito di edificare una struttura e una
tradizione di partito comunista italiano dai caratteri tanto
peculiari rispetto agli altri partiti fratelli europei da costituire
un unicum piuttosto che un' anomalia. Alla fin fine, si tratta nelle
grandi linee dello stesso partito comunista con cui ancora oggi gli
altri partiti italiani ed europei fanno i conti: e la durezza
dell'attacco portato al rapporto dei comunisti di oggi con la
tradizione togliattiana dimostra quanto ancora questo nodo conti
nella definizione di una nuova identità comunista.
Insomma: è vero,
verissimo che spiegare non vuol dire giustificare: ma bisogna stare
attenti che non giustificare non porti come conseguenza non spiegare
(ed è quanto sta accadendo). Fare la storia in campo politico è
difficilissimo (com'è noto): l'unica strada che comunque non si può
imboccare è quella che piega il passato al nostro presente. Non
dimentichiamoci che non c'è nulla di più staliniano di un uso
strumentale dei personaggi e delle vicende della storia: e questo
stalinismo del pensiero è riaffiorato qua e là nelle uscite
polemiche di molti commentatori anche di liberalissime persuasioni.
Insomma, si può fare della storia staliniana anche nei confronti
degli stalinisti. Ora, poniamo che i comunisti italiani, facendo oggi
i conti con il loro Togliatti, si trovino a sviluppare fino in fondo
quella pratica della lotta democratica, che in lui si trovava
avvolta, o meglio implicata, nella corteccia della strategia
staliniana: le strade che si aprono sono due. O il disvelamento e il
compimento della componente democratica della lezione togliattiana
portano in prospettiva alla dissoluzione della stessa identità
comunista; oppure l'avventurarsi fino in fondo sul terreno della
democrazia, e una pratica radicale di essa, conducono alla scoperta
di nuove frontiere del conflitto, ad una rinnovata, moderna critica
della democrazia capitalistica, a concepire, elaborare e praticare
nuove forme dell'opposizione e del governo, ad un allargamento
dell'orizzonte stesso della democrazia, ad una profonda riforma della
politica stessa e del sistema dei partiti, ad una nuova cultura
politica antagonistica (libertà, diritti, espansione delle
soggettività, qualità della vita, ecc.). Sono due prospettive
egualmente rispettabili, ma si deve sapere che sono molto diverse. A
me non par dubbio che il nuovo corso di Achille Occhetto abbia inteso
spingere il Pci ad imboccare la seconda strada: quando l'ultimo
Congresso indica come un obiettivo da raggiungere una nuova autonomia
culturale comunista, non indica, mi pare, un obiettivo di
dissoluzione ma di ri-costruzione, in un quadro non più soltanto
italiano, ma europeo. Un modo concreto, e non verboso, di andare al
di là dell'insegnamento togliattiano sarebbe, ad esempio, quello di
rimettere le mani nella macchina Partito, restata, questa sì,
sostanzialmente togliattiana (e per tanti versi, dunque, inadeguata,
come spesso si vede, alla linea del nuovo corso).
Qui vorrei chiudere. Il
giudizio su Togliatti non può essere dato oggi correttamente che in
un quadro di relazioni e confronti europei. La dissoluzione della
vecchia doppiezza comunista non si realizza in un contesto di
certezze sostitutive, già bell'e pronte, che sia sufficiente
abbracciare per potersi dire nuovi e di nuovo pronti per la lotta: la
crisi del socialismo realizzato corre parallela alla crisi della
sinistra progressista europea. In una situazione storica di lunga
durata come questa, il tentativo togliattiano di sviluppare una certa
forma e visione della democrazia non rappresenta l'ultima, singolare
e, in questa chiave, incomprensibile appendice del socialismo
dell'Est ma una delle tante, specifiche forme di concepire una strada
di progresso e di liberazione nelle condizioni date di una certa
porzione dell'Occidente capitalistico.
Se questo fosse vero, il
rapporto critico (anzi criticissimo, come dicevo all'inizio, anche di
superamento, certo, all'occorrenza) con la tradizione e l'eredità
togliattiana non dovrebbe essere assunto prevalentemente nel senso di
cogliere e rigettare il tratto genetico che la caratterizza, ossia lo
stalinismo, operazione che ognuno oggi è capace di compiere, quanto
di riprendere e sviluppare il suo tratto peculiare e inconfondibile,
ossia il tentativo (datato nei contenuti e nelle forme, ma tutt'altro
che disprezzabile concettualmente) di collegare un'opposizione di
massa e di classe ad un processo di trasformazione e d'inveramento
della democrazia. Questo potrebbe essere il contributo specifico dei
comunisti italiani (post-togliattiani, senza bisogno d'essere
anti-togliattiani) alla costruzione di una nuova sinistra europea.
“la Repubblica”, 2
settembre 1989
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