Una bandiera propagandistica degli antiproibizionisti canadesi |
Mercoledì
17 ottobre il Canada è diventato ufficialmente il secondo paese al
mondo (dopo l’Uruguay nel 2013) dove è stato reso legale il
commercio di cannabis “ad uso ricreativo”, come si dice in gergo
giuridico. Nello stesso giorno in cui nel paese nordamericano
venivano aperti centinaia di negozi assediati da lunghissime code di
fumatori felici di poter finalmente praticare il loro hobby preferito
alla luce del sole, il quotidiano francese “Le Monde” usciva con
un lungo articolo che apriva chiedendosi “Il divieto della
cannabis, che vede tutti d’accordo nel mondo da un secolo, sta per
andare in fumo?”. Secondo le stime riportate nell’articolo,
mettendo nel conto anche gli abitanti dei 10 stati Usa che hanno
legalizzato la cannabis, ormai nel mondo ci sono circa 110 milioni di
persone che vivono in luoghi dove la vendita e la produzione di
cannabis sono legali. A cui peraltro, diciamo noi, andrebbero
aggiunti anche 17 di milioni di cittadini dei Paesi Bassi dove la
cannabis formalmente è fuorilegge, ma dove da oltre mezzo secolo,
prima in alcuni club musicali poi a partire dagli anni ’70 nei
diffusissimi coffee-shop, è possibile comprare e vendere ganja e
hashish senza incorrere o quasi nei rigori della legge. Poi quasi
quattro milioni di georgiani: all’inizio di agosto la Corte
Costituzionale ha abolito quasi tutte le norme contro la marijuana
che da sostanza proibita è diventata “elemento di sviluppo
personale da non reprimere con la forza”, grazie alla mobilitazione
dei gruppi antiproibizionisti che quest’estate hanno dato vita al
Movimento del Rumore Bianco nato come reazione ad alcuni duri
interventi della polizia a feste e concerti e che per protesta ha
trasformato le strade della capitale Tbilisi in un ininterrotto rave
e festival musicale, fronteggiando anche i reparti antisommossa
grazie alla solidarietà degli abitanti. Anche in Sudafrica, in cui
negli ultimi anni si è diffuso un forte movimento
antiproibizionista, la Corte Costituzionale ha preso una decisione
analoga e stanno già nascendo numerosi cannabis club. C’è poi la
Spagna dove l’esperienza di “legalizzazione dal basso” dei
Cannabis Social Club non smette di estendersi nonostante i vari stop
and go imposti dalla magistratura. Nel Nepal con la fine della
monarchia sono praticamente terminati anche gli interventi della
polizia contro la marijuana (che, peraltro, da quelle parti cresce
spontanea) che si può comprare liberamente nei “reggae bar”
diffusissimi a Katmandu e nelle altre città. L’elenco è
incompleto, anche perché non smette di allargarsi l’atlante
mondiale dei movimenti antiproibizionisti, che dall’Africa
all’Europa all’Asia (ci sono collettivi antiproibizionisti
clandestini persino in Cina!) continuano a nascere perché vengono
dalla rabbia contro le violenze e gli abusi della polizia permessi e
giustificati dalle leggi antidroga che sono leggi contro le persone e
le loro culture e le loro scelte
Difficile
dire se veramente sia arrivato il momento della fine della War
On Drugs che in tutto per decine
e forse centinaia di milioni di persone in tutto il Pianeta ha
significato morte, galera, mafie e gangs, licenziamenti, terapie
coatte, internamenti forzati, persino bombardamenti dall’alto con
la diossina (non solo in Sudamerica o nel Triangolo d’Oro, ma
persino nel nord della California negli anni ’80 ai tempi di
Reagan). Il Canada, certo, è uno dei paesi del G7 ed una potenza
economica mondiale ed è possibile che abbia un peso su quello che
potrebbe succedere in altri paesi il fatto che il premier Trudeau
abbia deciso di mantenere almeno una delle promesse fatte in campagna
elettorale (a differenza, ad esempio, del francese Macron che
prometteva la depenalizzazione e che alla fine s’è inventato una
multa da 300 euro non trattabili che a discrezione del giudice e
dello sbirro potrà sostituire o “affiancare” la condanna penale
fino ad un anno di prigione che rimane in vigore. O dei meschini 5
Stelle nostrani, gli ex paladini della legalizzazione che, pur di
stare al governo, hanno dato a Salvini anche la direzione del
Dipartimento Antidroga nell’improponibile persona del
nazi-catto-leghista Ministro Fontana).
Il
modello canadese di legalizzazione è improntato su quello degli
stati Usa (ed in particolare del Colorado) e prevede un sistema di
licenze per i produttori e per negozi specializzati che possono
vendere soltanto cannabis o attrezzi per il consumo o la
coltivazione. A differenza che negli Usa, in Canada “il consumo è
permesso in qualsiasi posto in cui si possono fumare sigarette,
eccetto per i veicoli a motore” (come ha detto la polizia di
Toronto in uno di una serie di tweet che comprende anche quelli di
non chiamare più la polizia per “un adulto che fuma un joint”,
per “le piante coltivate dal tuo vicino” o ” per “odore
d’erba proveniente dalle case intorno”).
In
realtà, però, in Canada esiste una vera e propria selva di divieti
di fumo di tabacco e il fumo è vietato non solo all’interno ma
pure nelle immediate vicinanze (9 metri) dagli ingressi di bar e
ristoranti, negozi, edifici pubblici, uffici e persino in alcuni
parchi. Inoltre, possono richiedere il divieto di fumo sulle proprie
proprietà istituzioni, proprietari di immobili, scuole, gestori di
edifici pubblici e privati. Anche alcune Province hanno adottato
diversi provvedimenti restrittivi soprattutto per limitare in consumo
in pubblico e all’aperto. Le città di Edmonton e Calgary, nella
provincia di Alberta, sono state le prime a designare aree specifiche
per fumare cannabis nei parchi durante concerti, eventi o festival,
ma questi regolamenti sembra che non potrebbero essere messo in atto
perché il governo provinciale ha promulgato il divieto di fumo in
pubblico in tutta l’Alberta.
Di
fatto, come succede negli stati Usa che hanno legalizzato, il consumo
di cannabis viene rilegato all’interno degli spazi privati ed è
vietato anche all’interno degli stessi negozi che la vendono. Anche
in Canada la legalizzazione avanza con una serie di restrizioni molto
proibizioniste, come avviene dappertutto dove c’è stata qualche
forma di legalizzazione, con le uniche eccezioni del Nepal e
dell’Olanda dove nei Reggae Bar e nei coffee-shop ci si può andare
non solo per comprare l’erba, ma anche per fumare, bere, sentire
musica e stare in compagnia (e dove, però, non c’è stata alcuna
forma di legalizzazione).
Come
detto prima, in ogni caso è prematuro iniziare a dichiarare la fine
della War On Drugs. Le
cose potrebbero cambiare rapidamente, soprattutto negli Stati Uniti.
La posizione dell’Amministrazione Trump – al cui interno ci sono
esponenti ultraproibizionisti come il ministro della Giustizia Jeff
Sessions e il potente vicepresidente Mike Pence – s’è rafforzata
con la nomina alla corte suprema del reazionario giudice Brett
Kavanagh (che offrirà una sicura sponda legale alle azioni che la
Casa Bianca vorrà, ad esempio, intraprendere contro gli Stati che
hanno legalizzato la cannabis) e si rafforzerà ulteriormente con il
più che probabile trionfo dei trumpisti alle vicine elezioni “di
midterm”. Se è vero che, come dicono molti analisti, dopo la
vittoria alle elezioni di Midterm l’Amministrazione Trump passerà
alla fase due, in cui alla guerra contro il nemico esterno (gli
immigrati) si passerà alla guerra contro il nemico interno (gli
americani dissidenti), uno dei terreni in cui si giocherà la
battaglia sarà proprio il ritorno di fiamma del proibizionismo oltre
che la limitazione o l’annullamento del diritto di aborto.
Intanto,
proprio mercoledì 17 ottobre, nello stesso giorno in cui partiva la
legalizzazione della marijuana in Canada, le Filippine a New York
hanno ottenuto un nuovo mandato triennale nel Consiglio per i diritti
umani delle Nazioni Unite, con un voto dell’Assemblea generale Onu
che ha visto 165 delegati su 193 esprimersi a favore della nomina,
nonostante la sanguinosa guerra del presidente Rodrigo Duterte
“contro il narcotraffico” che ha provocato finora già oltre
ventimila vittime assassinate dalla polizia e dagli squadroni e
rivendicate da Duterte che, solo pochi giorni prima dell’assemblea
Onu, ha dichiarato in un discorso in una base militare che quanti
muovono critiche dall’estero alla guerra al narcotraffico
intrapresa dal suo governo dovrebbero essere utilizzati come
“bersagli umani” per i soldati.
“Umanità
Nova”, 20 ottobre 2018
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