27.11.18

Wall Street ha rapito la nostra democrazia. Intervista a James Galbraith (Giuseppe Sarcina)


«Quali sono gli effetti politici delle ineguaglianze economiche?». È una delle domande fondamentali in questa fase di cambiamenti politici. Dagli Stati Uniti a molti Paesi europei, a cominciare dall’Italia. Galbraith, 66 anni, è il figlio del celebre economista di Harvard, John Kenneth Galbraith. È considerato uno degli esponenti della scuola progressista post-keynesiana. Insegna all’Università del Texas, che ha sede ad Austin. Tra i suoi libri più noti, The Predator State (Free Press, 2008).

Tra gli economisti è acceso il dibattito sull’origine delle disuguaglianze nella storia recente. Qual è stato il momento chiave?
«Per quanto riguarda gli Stati Uniti il punto di svolta risale alla fine degli anni Settanta e poi all’arrivo di Ronald Reagan alla Casa Bianca (1981-1989). È anche il periodo in cui Margaret Thatcher diventa primo ministro in Gran Bretagna (1979-1990). Più o meno da quel momento e per circa 25 anni, la ricchezza economica è stata sostanzialmente confiscata da un’oligarchia. E avere la ricchezza, come diceva Thomas Hobbes, significa detenere il potere. Quello che è successo e sta succedendo negli Stati Uniti non è molto diverso da quello che è accaduto in Russia, in Ucraina e in altri Paesi. In America le istituzioni che avrebbero dovuto garantire un certo equilibrio e una redistribuzione delle risorse sono state occupate e dominate da pochi gruppi molto facoltosi. Sono vicende ben note. Mi riferisco alla tumultuosa ascesa di Wall Street e della finanza, con l’appoggio delle grandi società multinazionali e poi alla nascita del polo tecnologico della Silicon Valley. Oggi vediamo quanto potere sia concentrato nelle mani di pochi soggetti. È un fenomeno che sta minando il corretto funzionamento della democrazia».

Le disparità continuano ad aumentare?
«Non ne sono convinto. I dati mostrano che negli Usa c’è stato un picco nel Duemila e poi una leggera flessione e una stabilizzazione».

Merito di Barack Obama? Servirebbe tornare a quelle politiche per combattere le disuguaglianze? All’interno del Partito democratico è in corso un’accesa discussione...
«È vero, la presidenza Obama si era posta l’obiettivo di contrastare le disuguaglianze. Ma quello che sembrava un autentico interesse è stato poi smentito dalla gestione concreta della grande crisi economica del 2008. Obama ha nominato nei posti chiave figure provenienti dal mondo finanziario. La priorità assoluta dell’amministrazione è stata salvare la finanza. Un solo esempio: il piano di salvataggio delle banche è stato concepito e applicato da personaggi vicini a quegli ambienti, a partire dal segretario al Tesoro Timothy Geithner. In sostanza la presidenza Obama non ha disturbato il controllo della politica economica da parte di personaggi legati agli ambienti finanziari. Tutto ciò non deve sorprendere perché le campagne elettorali dell’allora presidente, come pure quelle di Hillary Clinton, all’epoca segretario di Stato, sono state massicciamente sovvenzionate da Wall Street».

C’è chi sostiene che gli squilibri economici tra le fasce della popolazione e tra i diversi Stati abbiano spinto Donald Trump verso la Casa Bianca. È d’accordo?
«Be’, il quadro mi sembra un po’ più complicato. Se guardiamo ai dati, che ho verificato con accuratezza, viene fuori che nei 14 Stati in cui le disuguaglianze sono aumentate di più nel periodo dal 1990 al 2014 ha vinto Hillary Clinton. Invece negli Stati in cui le distanze tra i più ricchi e gli altri sono cresciute di meno, Trump ha vinto con largo margine. Ci sono stati tanti fattori che hanno giocato, anche a livello dei singoli Stati, ma non credo che il risultato elettorale del 2016 sia stato condizionato da una reazione alle disuguaglianze economiche».

Quali sono i provvedimenti concreti che andrebbero adottati per ridurre le disuguaglianze?
«Guardo alla realtà americana. Innanzitutto bisogna aumentare il salario minimo, come ha fatto di recente Amazon, portandolo a 15 dollari l’ora. E questa è una buona notizia. Poi bisogna estendere la copertura delle assicurazioni sanitarie e sociali. Frantumare le grandi banche in modo da creare entità più piccole, più competitive e sottoposte a controlli più efficaci. Ancora: riformare le tasse sull’eredità, in modo che non sia possibile trasferire oltre un certo limite le ricchezze. I fondi in eccesso andrebbero redistribuiti alle istituzioni che si occupano di salute, di istruzione. In questo modo verrebbero meno le dinastie familiari che dominano l’economia. Infine vanno tassati nello stesso modo i redditi da lavoro e le rendite da capitale».

È un programma molto vasto. Realisticamente potrebbe ottenere il consenso politico per essere applicato?
«Anche io ragiono da politico realista. E mi rendo conto che potrei anche non vedere la completa realizzazione di un programma come questo nel corso della mia intera vita. Ma se qualcuno mi chiede se esiste una via più facile per diminuire le disuguaglianze, la mia risposta è no. Queste sono le misure che occorrono, perché sono le uniche che funzionerebbero davvero».

Come giudica, allora, le politiche adottate dai nuovi governi populisti? In Italia i leader del Movimento Cinque Stelle hanno condotto la campagna elettorale promettendo che avrebbero migliorato le condizioni delle persone rimaste indietro...
«Posso solo dire che non sono persuaso che il governo italiano finora abbia adottato misure abbastanza forti per rilanciare l’economia e risollevare le condizioni dei lavoratori. Vedo che ci sono molti problemi all’interno dell’esecutivo, in particolare con il ministro Giovanni Tria, e con la Commissione europea».

E Trump?
«Non credo affatto che Trump e il Partito repubblicano si preoccupino davvero delle condizioni della working class. Credo siano state profondamente insincere le promesse rivolte ai lavoratori durante la campagna elettorale. Tuttavia l’amministrazione continua a mettere in campo provvedimenti di politica economica che favoriscono la crescita. E quindi è possibile che con una crescita più forte, e nonostante le reali intenzioni dei repubblicani al governo, anche la condizione della working class a un certo punto possa migliorare».

La Lettura – Corriere della Sera, 14 ottobre 2018

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