Casque d'or, la
regina degli apaches parigini (impersonata da Simone Signoret nel
film di Jacques Becker che è ormai un classico), pubblicò nel 1905
le sue memorie di prostituta e di ladra appropriatamente intitolate:
Mes jours et mes nuits. Anche lei, come tante sue colleghe,
aveva fatto l'esperienza del bordello e così la raccontava: “A
quei tempi recitavo la parte della bambina perbene in una casa di
prim'ordine. La verità è che non ero affatto perbene e che chiunque
poteva conoscermi intimamente pagando il giusto prezzo. Mi vestivano
con delle gonnelline corte che mi lasciavano nudi i polpacci e
intrecciavano ai miei capelli nastrini blu o rosa. Rispondevo al
grazioso nome di Fanfan. È incredibile come i vecchioni della
società benpensante si sentano attratti da questo giochetto... Io
restavo di preferenza nei pressi della cassa e talvolta dentro il suo
recinto. Con un po' d'immaginazione mi si poteva prendere per la
figlia o perfino per la nipote della sotto-maitresse”.
Appena qualche anno più
tardi il giornalista Jacques Roberti pubblica sul Crapouillot
un'inchiesta sui bordelli. Ecco che cosa descrive: “I clienti del
mattino entravano alla svelta, mercanti di tappeti con calotte rosse
in testa, giocatori delle tre carte, manovali, pregiudicati. Tutte le
razze africane erano rappresentate: kabili, marocchini, berberi.
Dalle otto del mattino alle dieci di sera, senza tregua, le ragazze
salivano la scala che conduceva alle camere, scendevano, risalivano.
Facciamo in fretta che non siamo qui a divertirci urlava la padrona.
Sei camere per diciotto ragazze. Nel corridoio le coppie, gravi e
silenziose, aspettavano il loro turno. E su ogni letto coperto da una
tela cerata, tra quattro mura nude come quelle d'una cella di
prigione, sei volte per ora, con un meccanismo da orologeria, si
ripeteva lo stesso atto”.
Poche istituzioni
borghesi hanno ispirato le cronache di costume e le pagine della
letteratura quanto il bordello. Per tutta la seconda metà
dell'Ottocento e fino alla prima guerra mondiale, il postribolo è un
topos letterario ricorrente, quasi ossessivo. Tra i vari elementi
della casa di meretricio uno spicca costantemente su tutti gli altri:
l'odore caratteristico delle sue stanze. Joris-Karl Huysmans (Marthe,
histoire d'une fille) probabilmente idealizza alquanto scrivendo
che quei saloni erano impregnati degli odori furibondi dell'ambra e
del pasciulì. Albert Juhelle (nel suo La crise virile) mette
in risalto componenti più concrete descrivendo il primo ingresso di
un adolescente: “Fin dai primi gradini lo avvolse una buffata
d'aria calda che scendeva dal piano superiore; un odore complesso di
carne e di belletto”. Guy de Maupassant, nel suo celebre Casa
Tellier, accorda anche gli odori all'atmosfera generale del
racconto: “Il fabbricato, umido e vecchio, emanava un leggero odore
di muffa. Una scia d' acqua di colonia si spandeva di tanto in tanto
per il corridoio”.
Alla fine degli anni ' 50, Charles Baudelaire,
in una lettera al suo amico Asselineau, così descrive le ragazze
d'un lupanare: “Seguendo la scala, discendemmo fino alle schiave
che vivono confinate in quelle catapecchie; infelici tenute sotto la
tutela più avara che non possiedono nulla di proprio, neanche
l'eccentrica tenuta che serve di condimento alla loro beltà. Tra
queste, alcune, esempio d'una fatuità innocente e mostruosa,
esibiscono nei volti e negli sguardi, audacemente fissi, l'evidente
felicità d'esistere (ma perché, poi?)”.
Huysmans ci mostra,
attraverso gli occhi d'una ragazza, l'attesa del primo cliente in una
casa parigina del 1875: “Le girandole di candele, i muri ricoperti
di satin, ballavano davanti ai suoi occhi come scintille, poi il suo
sguardo si schiarì e si vide, in una grande specchio dalla cornice
di vetro, impudicamente prostrata sulla panchetta, pettinata come per
andare al ballo, le carni rese più sapide dai merletti intrisi di
profumi forti. Non era capace di credere che quell'immagine fosse la
sua. Guardava con stupore le sue braccia incipriate, le sopracciglia
sottolineate dal carbone, le labbra rosse come carni sanguinolente,
le gambe rivestite da calze di seta cremisina, il seno sollevato e
tremante, tutta l'esca conturbante delle sue carni che rabbrividivano
sotto la leggerezza del peignoir”.
Edmond de Goncourt
pubblicò il suo Fille Elisa solo pochi mesi più tardi,
ulteriore conferma dell'immenso interesse suscitato dall'argomento:
“Nel fondo, scrive, molto nel fondo della sala racchiusa e concava,
confuse, mescolate, strette le une alle altre, le donne erano
raccolte intorno a una tavola in una sorta di cumulo incerto. Dal
grumo di carne nuda e di biancheria spuntavano di continuo delle dita
che frugavano in un pacchetto di tabacco Maryland per arrotolare una
sigaretta. Una gonna bianca su una camicia a maniche corte era la
toilette di queste femmine che lasciava intravedere, nella scollatura
della biancheria da notte e da letto, le braccia, l' inizio del seno
e, in qualcuna, l' oscurità lanuginosa della cavità delle spalle...
A mano a mano che qualche cliente si sedeva, dal branco delle femmine
si staccava una ragazza che canterellando, la vita stretta tra le
mani, veniva a strofinarsi contro il nuovo arrivato, lasciando
penzolare, sul panno della sua uniforme, le sue nudità molli....”
“la Repubblica”, 7
luglio 1990
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