Marsala
«Era l’ultimo
giorno della nostra campagna di scavo, un piovoso pomeriggio
autunnale di tre anni fa. Venne fuori all’improvviso, abbagliante
nella bianchezza del suo marmo: dapprima il ginocchio, ben modellato
sotto la tunica sottile, poi le cosce, quasi femminili. Gli scavatori
facevano scommesse sul suo sesso. Quando rimuovemmo la terra più su,
la veste pieghettata della statua lasciò trasparire netti attributi
virili ». Così Gabriella Calascibetta, giovane archeologa siciliana
in missione nell’isola di Mozia (e con lei le colleghe Francesca
Spatafora, Marisa Fama, Adriana Fresinaj racconta della splendida
scoperta che le toccò per caso nel quadratino di scavo affidato alla
sua supervisione: una statua di marmo alta un metro e novanta,
scolpita da un raffinato artista greco alla metà del quinto secolo
avanti Cristo, lo stesso periodo nel quale venne fuso il primo dei
due bronzi di Riace, il più bello.
Il "ragazzo in
tunica” di Mozia è altrettanto bello. Quando verrà esposto —
per ora è sottochiave in un magazzino laboratorio — si prevede che
faranno la fila per vederlo. Appoggiato tutto su una gamba, il busto
in lieve torsione, una mano ancorata alla vita, mollemente, esprime
un’elegante, altera sicurezza; la tunica, fine come una garza, è
sostenuta da una fascia annodata alla sommità del petto, di fattura
elaborata; un braccio manca completamente, ma il sapiente rilievo dei
muscoli della spalla — tutta la statua rivela una cura del
dettaglio anatomico quasi michelangiolesca — ha fatto ritenere che
dovesse essere proteso in avanti, nell’esibizione di un segno del
comando, per esempio lo scettro del sufeta, una specie di magistrato
che nella società greca aveva il potere politico e quello religioso.
Altri ritengono invece che il braccio dovesse spingersi verso l’alto,
piegato ad angolo acuto, a cingere la testa di una corona d’alloro,
l'emblema caratteristico di un auriga vittorioso. Auriga o sufeta, il
giovane in tunica di Mozia (già Ennio, poeta romano, cantava nel
secondo secolo la "tunicata juventus" delle genti
puniche) piacerà soprattutto per l’impercettibile ambiguità che
emana dalla sua figura: lo scultore era sì un greco, ma venuto a
contatto e fortemente influenzato da culture orientaleggianti. Di
questa stupenda opera per tre anni si è saputo solo all’interno
del mondo accademico. La notizia è sfuggita di mano, quasi
accidentalmente, agli archeologi che ora fronteggiano con imbarazzo
gli effetti della pubblicità. Ammette Vincenzo Tusa, soprintendente
della Sicilia occidentale, docente di antichità puniche a Palermo: «
Ci piace coltivare la modestia, operare con discrezione ».
Prima della comunicazione
al pubblico, il team di Mozia voleva essere sicuro della identità
storico-artistica del reperto. Dice il ricercatore Gioacchino Falsone
che ha diretto gli ultimi scavi, condotti dall’università di
Palermo in collaborazione con la Soprintendenza: «Qualcuno ha
sottolineato con sorpresa il fatto che la statua, una delle più
preziose testimonianze della scultura greca, sia venuta alla luce
giusto a Mozia, il più importante centro punico della Sicilia, il
più fedele alleato dei cartaginesi e geograficamente il più
prossimo alla città africana, distrutto dai greci nel 397 avanti
Cristo. Si è parlato persino di un "giallo” archeologico. E
invece non c'è nessun mistero. La Magna Grecia, è vero, non
disponeva di marmo locale, e in Sicilia si scolpiva soltanto in
pietra, ma la statua potrebbe essere approdata a Mozia in diverse
circostanze: per esempio, come preda bellica, razziata dai punici in
una delle colonie greche vicine, magari Agrigento. Oppure, visto che
i rapporti fra le due culture non furono solo di guerra, il giovane
in marmo potrebbe essere stato scolpito da un artista greco per un
committente punico; e perché non immaginare che lo scultore abitasse
addirittura a Mozia? Quando Dionigi di Siracusa conquistò e
distrusse l’isola, vi trovò moltissimi greci che fece crocifìggere
come traditori».
Un piccolo giallo però
esiste davvero. La statua è stata trovata in una fossa ricolma di
materiali di sgombero, in un’area usata dai punici come discarica.
«In effetti era adagiata sotto una coltre di detriti, come se
l’intenzione fosse stata quella di seppellirvela », ipotizza
Falsone. Forse per salvarla dalla distruzione, nell'imminenza di un
attacco da parte greca? E se è così, perché si pensò a proteggere
solo questa statua? Oppure, nello stesso posto, ancora sotto terra,
ce ne sono delle altre? «L’isola di Mozia», spiega il professor
Tusa, «è ancora tutta da scoprire, diciamo che finora gli scavi ne
hanno fatto riemergere appena il dieci per cento. Ci aspettiamo
moltissimo dal resto, anche perché, a differenza di altri siti
punici, riedificati in epoche successive più volte, Mozia è ancora
quella del 397, l’anno della sua distruzione». Aggiunge Antonia
Ciasca, docente di antichità puniche a Roma, che ha preso parte a
nove campagne di scavo nell'isola: «A Cartagine, prima di arrivare
al reperto punico bisogna attraversare diversi metri di strutture
romane e bizantine, e fare i conti con gli esperti di queste
discipline. Mozia invece è la Pompei della storia punica».
Forse è per questa sua
integrità che ha attirato l’interesse di tanti studiosi. Da
quando, alla fine dell’Ottocento, si ebbe la certezza che l'isola
di San Pantaleo, oltre lo ”stagnone”, il braccio di mare chiuso
come una laguna che la divide da Marsala, era sicuramente l'antica
Mozia, si sono alternati agli scavi archeologici nomi illustri. Il
più noto fu Heinrich Schliemann, lo scopritore di Troia e di Micene.
Vi scavò solo per quattro giorni, poi ripartì deluso annotando nel
suo diario che gli scavatori assoldati tra le diciannove famiglie di
contadini dell'isola, tutti imparentati tra di loro, «sono
certamente tra i peggiori operai che io abbia mai avuto». Continuò
gli scavi, stavolta con evidenti successi, un archeologo dilettante,
il capitano d’industria anglo-siciliano Joseph Whitaker,
discendente di una famiglia impiantatasi tra Palermo e Marsala, dove
con gli Ingham creò il famoso "baglio per la produzione di un
vino assai simile al porto. Joseph, Peppmo per gli amici, era anche
un uomo di scienza, si interessava di botanica e di ornitologia.
Mozia fu la sua passione. Riuscì a comprare l'isola, con l’aiuto
dell'amico garibaldino Giuseppe Lipari Cascio, appassionato di
archeologia pure lui, e cominciò subito gli scavi. Nel 1921 pubblicò
i i risultati in un libro al quale da allora hanno attinto in molti.
A Mozia creò un museo che ancora resta l’unico.
Oggi l’isola appartiene
alla Fondazione Whitaker voluta dagli eredi dell’ex proprietario.
Accanto a politici e studiosi siede in consiglio d amministrazione
anche un discendente d quel colonnello Lipari, fedele collaboratore
del vecchio Whitaker. Nell'isola — tutt’ora un oasi i ecologica
fitta di banani e di palme, di gelsomini e di alberi marmi, di agavi
e di gerani selvatici — vivono solo tre famiglie delle diciannove
registrate da Schliemann. Gli uomini non fanno più gli scavatori.
Hanno il ruolo di guardiano-bidello. E nel tempo libero coltivano la
loro vigna, che dà un vino squisito. Dice
don Vincenzo, che si
occupa anche di traghettare i visitatori con la sua barca: «Da
quando si è saputo della statua, ne sono venuti a centinaia. Per noi
la pace è finita ». Alla Fondazione intanto si discute di un nuovo
museo — forse sorgerà su palafitte, al centro dello "stagnone
– e di una nuova imponente campagna di scavi.
L'ESPRESSO - 9 MAGGIO
1982
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