Pippo Barzizza, Alberto Rabagliati, Tito Petralia |
Italia, anni Trenta: fra
Chitarra alpina e Giovinezza, fra le onde radio della
giovanissima Eiar s’iniziano a sentire suoni diversi, più
sincopati; l’America di Glenn Miller e di Duke Ellington sbarca
molto prima che le truppe Usa arrivino ad Anzio: questo però è uno
sbarco pacifico, quello dello swing. Il movimento ondulante che è
parente stretto del rock’n’roll, arriva, come narrano le vicende
avventurose dei musicisti italiani di quel periodo, tramite i
padelloni, ossia i V disc. Grazie ai supporti in vinile (anzi
acetato) del popolo musicale degli Usa e a un forte mercato che non
tiene conto solo dell’opera lirica italiana; i fortunati che
riuscivano ad ascoltare questi dischi, potevano innamorarsi di un
tipo di musica molto diversa da quella che si sentiva in Italia e che
il regime imponeva d’ascoltare. La storia è lunga a questo punto,
poiché il regime non capiva molto di musica, tant’è che lo stesso
Mussolini (che possiamo vedere in alcune foto imbracciare un violino)
era più che altro un dilettante delle sette note e non aveva
competenze specifiche, così come la maggior parte dei suoi gerarchi
e del gruppo degli intellettuali di cui s’attorniava nella corte
romana. Basti solo pensare che i compositori fascisti (che aderirono
al partito e che furono attivisti) si ancorarono a Pietro Mascagni;
già, l'autore di Cavalleria rusticana che ha sempre malamente
condiviso i palcoscenici italiani con la bravura e la signorilità di
Giacomo Puccini, compositore di gran lunga superiore, aveva la
competenza di chi usciva dai conservatori dell’epoca e quindi
proponeva una cultura classica della musica, figuriamoci quindi cosa
potesse mai capire di jazz o di swing. Per uno melodico come lui
potevano andare bene le canzoni del collega Ruccione.
Mario Ruccione è stato
proprio il simbolo del pressappochismo fascista verso la musica;
infatti fu lui l’autore di Faccetta nera (in realtà plagio
della sigla che Gustavo Cacini, un attore romano sullo stile di
Fregoli e Petrolini, aveva composto per i suoi show), ma anche della
fiera del kitsch melodico, come Bianco Padre, Chitarratella,
Vecchia Roma, Popolanella, Buongiorno tristezza.
Silenziosamente però, s’insinua il lavoro di Pippo Barzizza,
genovese classe 1902, anch’egli con solidi studi classici alle
spalle. La sua prima creatura fu l’orchestra Blue Star che riuscì
a ritagliarsi uno spazio molto importante nei locali da ballo di
Genova. Infatti all’epoca, qualsiasi musica che non fosse classica,
doveva servire per far ballare. Le città dove si ballava con grande
ardore erano, oltre Genova, Torino, Milano, Napoli e Roma, ma un po’
dappertutto non si disdegnava di passare il tempo mangiando e
ballando, dando vita così a quei circoli che saranno fondamentali
per diffondere la rete «popolare» di Mussolini.
La grande passione per il
ballo degli italiani era pari alla passione per la canzone che traeva
spesso origini dalle romanze di Francesco Paolo Tosti. In questo
ambito il lavoro di Barzizza fu molto importante, poiché quando nel
1936 entrò a lavorare come impiegato negli studi dell'Eiar, si trovò
di fronte alla cultura del motivo popolare, quindi dovette partire
dalla base ritmiche per far entrare nelle orecchie degli italiani la
musica Usa; rimpolpò la sezione degli ottoni e usò gli archi con
figurazioni sincopate o semplicemente con note lunghe a mo’ di
pedale armonico, mentre la batteria e le percussioni avevano il ruolo
più importante nel definire l’andamento sincopato, spesso
sostenute dal pianoforte. Di fronte a questo nuovo modo di suonare,
non pochi musicisti ebbero difficoltà, soprattutto quelli che
provenivano dal mondo della canzone classica; per non parlare dei
cantanti, alcuni dei quali si guardarono bene dall’aderire al nuovo
linguaggio. Ovviamente lo swing imperversò nelle sale da ballo e
spesso sostituì i valzer, le mazurche, i tanghi e anche i fox-trot.
Con Barzizza si schierarono idealmente e professionalmente Alberto
Rabagliati, Ernesto Bonino, Oscar Carboni, Silvana Fioresi, e con la
creazione in radio dell’orchestra Cetra la musica cambia direzione.
Poi negli anni Trenta
accadono eventi molto importanti. Nel 1935 Carlo Prato scova, in un
locale di Torino, un trio di tre giovani olandesi oriunde italiane:
Alexandria, Judith e Chatarina Leschan; Prato le prepara vocalmente
mentre Barzizza ne intuisce le qualità e decide di affidargli alcune
di quelle canzoni che poi diverranno i successi delle «italiani
Lescano. E partono quindi nell’etere C’è un’orchestra
sincopata, Ciribiribin, La gelosia non è più di moda,
Le tristezze di san Luigi e l’arcinota Tulipan. Ma è
grazie a un giovane jazzista, innamorato di Louis Armstrong e di Duke
Ellington, che le Lescano «sfondano» assieme a Silvana Fioresi con
Pippo non lo sa che tanto fece arrabbiare il vice duce
Starace; ma Gorni Kramer, che ne fu l’autore, non fece una piega e
con la sua fisarmonica iniziò a swingare senza sosta. A dare
manforte a questa sorta di Carboneria della musica, ci pensò Louis
Armstrong che arrivò proprio a Torino nell’anno delle Lescano: il
ghiaccio era rotto. Dal canto suo il regime si guardò bene dal
disturbare il successo dello swing, perché Romano Mussolini fu
colpito dalla passione per il jazz e, da modesto pianista, «impose»
al padre quel linguaggio che - come Topolino - finì per piacere
anche al duce.
Gorni Kramer |
Concludiamo sottolineando
che Pippo Barzizza rimane ancora oggi il maestro indiscusso di
un’epoca e di un sound che nulla aveva da invidiare ai cugini
statunitensi: d’altronde quello che riuscì a creare fu proprio una
sonorità ricercata, dove si amalgamavano le espressioni degli
strumenti con le voci fino ad arrivare a quella che sarà l’orchestra
detta ritmico-sinfonica, proprio dall’intuizione di Barzizza.
L’era dello swing non è
mai finita ma si può collocare sicuramente con la fine del secondo
conflitto mondiale e con l’avvento della canzone melodica e la
nascita di Sanremo (alla quale collaborò attivamente lo stesso
Angelini). Il lavoro di Barzizza, anche se con strade e intenti
diversi fu portato avanti da tanti jazzisti, primo fra tutti Kramer e
poi Lelio Luttazzi fino all’ultima generazione che è quella di
Gianni Ferrio e di Franco Cerri, ideali innovatori di un linguaggio
che non smetterà mai di far battere il piede.
“alias – il
manifesto”, 12 febbraio 2011
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