Matteo Codignola |
Sono quarant’anni,
forse anche qualche palleggio in più, che Matteo Codignola ama
forsennatamente il tennis («Scriva pure che ne sono vittima»). Lo
ama da giocatore («Ho iniziato da ragazzino e non ho mai smesso»),
da spettatore («Fosse per me lo guarderei in tivù anche 24 ore su
24»), da lettore («Diciamo che maneggio la materia»), e da
scrittore: da tempo lo fa per un magazine di sport&cultura.
Mentre di pubblicare un libro ci ha pensato per anni. Solo che non
sapeva cosa raccontare. Poi, tempo fa, il suo amico Vincenzo Campo
(editore sofisticato di Henry Beyle e cacciatore di mercatini) trova
una valigia zeppa di vecchie fotografie d’agenzia, tra cui un
centinaio sono di tennis, scattate nel circuito amatoriale del
secondo dopoguerra, anni ‘50 e ‘60, prima che nascesse il
professionismo come lo intendiamo oggi, cioè prima dell’era Open
nel 1968. Campioni in azione, racchetta in pugno. Coppie di doppio
misto. Strette di mano a fine match. Pause di gioco. Sbarchi di
stilosi atleti in aeroporto... Vita quotidiana e partite, che poi per
tutti loro erano la stessa cosa. «E lì ho capito che avevo trovato
le storie giuste da raccontare. Ho scelto venti fotografie e per
ognuna ho scritto una lunga didascalia, diciamo un capitolo». Ed
ecco Vite brevi di tennisti eminenti (un po’ biografie
d’autore, un po’ cronache al massimo livello di uno sport minore,
un po’ riflessione autoironica sul gioco più serio che esista)
pubblicato dalla stessa casa editrice di cui Codignola – genovese
di nascita, milanese di rinascita e tennista più che amatoriale –
è editor di lungo corso e traduttore. Tra gli altri di Patrick
McGrath, Mordecai Richler, Patrick Dennis e John McPhee (autore
peraltro ben noto a chi sa di letteratura e di tennis...).
Vite brevi, storie
fantastiche (per quanto vere). Come quella del barone Gottfried von
Cramm, nobile eleganza e classe teutonica, forse – secondo una
battuta crudele ma perfetta – «il più forte giocatore a non aver
mai vinto Wimbledon». O come quella («una delle mie preferite...»)
di Eleanor Teach Tennant, la prima grande coach della storia del
tennis: indipendente, sessualmente libera, amica di mezza Hollywood,
fanaticamente devota alla sue allieve. O quella del losangelino
Pancho Gonzales (1928-95), «il più grande di sempre», ma che in
pochissimi hanno avuto la fortuna di vedere, dato che giocava nei
circuiti professionisti, quindi fuori dai tornei del Grande Slam, e
che a 41 anni, nel ‘69, a Wimbledon, vince la partita più lunga
mai giocata fino a quel momento...
Dietro quelle foto
d’epoca ci sono storie meravigliose. Dietro le copertine e le
conferenze stampa dei campioni di oggi...
«C’è quello che loro
vogliono che tu sappia. Sono giocatori straordinari, intendiamoci. Ma
sopratutto grandi personaggi mediatici dei quali, al di là di ciò
che ti dice il loro portavoce, non sai niente. Una volta i tennisti
giocavano di meno ma giravano di più. Li vedevi, ci parlavi, di loro
si sapeva molto... Le cronache giornalistiche di quegli anni –
ricchissime di aneddoti, battute, curiosità dentro e fuori dal campo
– sono stupende... Un po’ meno i libri. Erano ragazzi che a 35-40
anni si ritrovavano senza sapere più cosa fare, e così si mettevano
a scrivere un’autobiografia, con l’aiuto di un ghost, e quasi mai
divertente: poco più di un elenco di match. Il tennis ha sempre
prodotto un’editoria sotterranea mediamente noiosa».
Fino a Open.
L’eccezione.
«Open è un
notevolissimo caso di scuola, un libro che alla storia di Agassi
aggiunge molto, e toglie anche qualcosa – diciamo così – di
spinoso. Ma è un libro che si è fatto leggere da milioni di persone
proprio perché è stato costruito da un grande scrittore, J.R.
Moehringer, sull’impalcatura del Grande Romanzo Americano. È
qualcosa un po’ più del tennis, qualcosa un po’ meno della
letteratura».
Qual è il rapporto
tra tennis e letteratura?
«Mi sono fatto l’idea
che nel tennis, rispetto a tutti gli altri sport, c’è una
indubitabile ricerca della bellezza, del bel gesto, un desiderio di
eleganza formale che si può accostare a quell’armonia, o
equilibro, che qualcuno – non tutti... – ricerca scrivendo. Di
più: nel tennis c’è la stessa ossessione e la stessa
incontentabilità che trovi in letteratura. Cerchi sempre la partita
perfetta, senza sbavature, come nella scrittura. Se sbagli un
quindici, appallottoli e butti via il foglio...».
Cosa significa –
cito – che «tra la linea di fondo del campo e la rete ci sono più
cose di quante ne contenga la filosofia di un giocatore»? O di uno
scrittore...
«Significa che nel
tennis tu pensi in continuazione, in maniera – anche qui –
ossessiva, per tutta la durata della partita: pensi nelle pause,
mentre colpisci la palla, mentre la raccogli. Pensi cosa c’è che
non va, perché hai fatto quell’errore, pensi al terrore che ti
paralizza quando la possibilità di vincere inizia a prendere forma.
E pensi anche nei momenti in cui continui ostinatamente a ripetere,
senza una logica apparente, il tuo errore. Il punto è, come disse un
grande coach, che il giocatore di tennis non ha mai un piano B. Solo
un piano A. Non so, in quello strano rettangolo c’è qualcosa di
più di quello che vediamo...».
Genio e
sregolatezza vanno sempre insieme, nello sport e anche in
letteratura. E così?
«Premessa. A me
piacciono i talentuosi; mai avuto la mistica del mediano, o il culto
del gregario. Ma credo che non esista il genio senza sudore e lavoro.
Non ci credo. C’è l’intuito, la predisposizione, ci sono tante
cose, certo... Ma per essere il numero uno devi studiare, allenarti,
sputare sangue. Nella scrittura e nello sport. Roger Federer – che
io reputo il giocatore più talentuoso mai esistito – è una
splendida macchina da guerra. Ma non spunta dal nulla. È frutto di
migliaia di ore di allenamento. Nel tennis, e in letteratura, non
basta il talento. Non è mai bastato».
Il libro, e il
tennis in generale, è pieno di storie di inglesi, americani,
australiani soprattutto. E di italiani anche. Cosa ha dato l’Italia
al tennis?
«Molto. Grandi
giocatori, come Giorgio De Stefani negli anni Trenta. Ha dato Beppe
Merlo, esile, amatissimo dalle donne, che giocava pianissimo ma
vinceva contro tennisti che avevano quattro volte la sua forza. E
poi, in un’altra stagione, ha dato un giocatore come Panatta. Io
non amo molto il tennis vintage e lentissimo, preferisco quello
attuale. Ma di recente mi sono imbattuto nel documentario The
French, sul Roland Garros... Ho visto tre spezzoni di Panatta. E
mi sono ricordato delle cose sovrumane, per bellezza, che faceva».
Tennis e editoria.
Come va la partita?
«Bene, meglio che nel
cinema forse. Detto tra di noi Borg-McEnroe e La battaglia
dei sessi, usciti l’anno scorso, sono due film ben fatti, ma
deludenti. Le storie sono belle. Quello che manca è il gioco, che
nessun tentativo di imitazione, o di ricostruzione, riesce a rendere.
In compenso, sì, vedo che i libri sul tennis anche da noi cominciano
ad avere il loro pubblico. A parte Tennis di John McPhee, che
è uno scrittore gigantesco qualunque cosa scriva, e, uscendo da casa
Adelphi, ci sono titoli molto belli di 66thand2nd, che è nata per
pubblicare libri di questo genere. Finalmente anche da noi si inia ad
apprezzare lo sports writing. Cosa che negli Stati Uniti si fa
sempre. E infatti ci sono pezzi di “Sports Illustrated” che
stanno tranquillamente a livello degli articoli più belli del tanto,
giustamente, celebrato “New Yorker”...».
Il Giornale, 27 novembre
2018
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